una immagine di Carlo

Carlo Acutis

la commovente testimonianza della madre di Carlo

La madre riferisce, nel testo che segue, degli ultimi giorni della vita terrena di Carlo, segnati da una eroica sopportazione delle sofferenza, che solo una forza soprannaturale poteva permettergli.


«2 ottobre

Carlo aveva la febbre.

Ci riunimmo tutti insieme per fargli compagnia mentre lui cenava nella sua camera da letto.

D'improvviso, se ne uscì con questa frase: "Offro le mie sofferenze per il Papa, per la Chiesa, per non fare il Purgatorio e andare dritto in Paradiso". Lì per lì pensammo che ci stesse prendendo in giro. Carlo era sempre allegro e giocoso. Credevamo che volesse scherzare e non prestammo particolare importanza a queste parole che sembrava avesse volutamente pronunciato per farci sorridere un po'.


 7 ottobre.

Carlo si svegliò presto. Voleva andare in bagno, ma si accorse che non riusciva a muoversi. Non poteva alzarsi dal letto. Non ne aveva le forze. Era colpito da una importante forma di astenia. Mi chiamò per essere aiutato. Con molta fatica, insieme a mio marito, riuscimmo a portarlo in bagno. Ci allarmammo moltissimo. Decidemmo di chiamare il vecchio pediatra di nostro figlio, un noto professore di Milano che era ormai andato in pensione e di cui ci fidavamo ciecamente. Ci disse di portare Carlo subito alla clinica De Marchi dove lui era stato primario per tanti anni. Fu molto gentile con noi. Prima che arrivassimo in clinica allertò i medici. E, in particolare, avvisò il primario specializzato in ematologia pediatrica: doveva investigare subito e cercare di capire cosa stesse succedendo.

Sulla soglia della clinica i miei pensieri giravano vorticosi. Mentre due infermieri portavano Carlo dentro la clinica, infatti, mi girai d'istinto per guardare dalla parte opposta della strada. Notai la chiesa dei padri Barnabiti, dove sono custodite le reliquie di sant'Alessandro Sauli. Conoscevo bene quella chiesa, ma quella mattina mi sentii come attratta da essa. Qualcosa mi disse: girati, guarda là. Immediatamente ne compresi il motivo, Sant'Alessandro Sauli era casualmente divenuto quell'anno compagno nella vita di Carlo.

Ogni 31 dicembre a Milano, infatti, si usa fare "la pesca del santo". Si dice che il santo che uscirà accompagnerà in modo speciale, per tutto l'anno, la persona che lo ha "pescato". Quell'anno gli capitò sant'Alessandro Sauli, un vescovo barnabita, vissuto nel 1500, patrono dei giovani, la cui festa cade l'11 ottobre, un giorno che rimarrà scolpito per sempre anche nella storia del mio Carlo. Mi colpì che quella chiesa si trovasse proprio di fronte alla De Marchi. Istintivamente lo affidai a sant'Alessandro ed entrai in clinica.

Come se fosse oggi, mi tornano alla memoria le parole che ci disse il primario poco dopo i primi esami: "Carlo è stato colpito, senza possibilità di dubbio, da una leucemia di tipo M3 o leucemia promielocita".

Ci disse che Carlo doveva essere immediatamente ricoverato e che dovevano provare subito delle cure importanti per cercare di salvarlo. Le stesse cose le comunicarono a Carlo. Non gli nascosero nulla.

Quando il primario ci lasciò soli, Carlo riuscì a rimanere sereno. Ricordo che ci fece un grande sorriso e ci disse: «il Signore mi ha dato una sveglia!».

Mi colpì molto il suo atteggiamento, questa sua capacità di guardare a quella situazione con positività e serenità sempre e comunque. Ancora oggi mi torna alla memoria quel sorriso luminoso che ci fece. Era paragonabile a quando qualcuno, entrando in una stanza buia, accende di colpo la luce. Tutto si illumina e prende colore. Questo fece lui.

Passarono pochi minuti e vennero a trasferire Carlo in terapia intensiva. Gli misero in testa uno scafandro per l'erogazione dell'ossigeno e così facilitargli la respirazione. Gli dava molto fastidio. Gli impediva movimenti. Non era in grado di espettorare bene.

Mi avevano permesso di rimanere con lui dentro la terapia intensiva soltanto fino all'una di notte. Poi Carlo dovette rimanere da solo. Prima che me ne andassi volle che recitassimo insieme il rosario. Quasi non riusciva a parlare, ma volle comunque farlo.


 8 ottobre

All'alba mi recai a Messa nella chiesa dei padri Barnabiti, per chiedere l'intercessione del Signore e della Vergine Santissima. Pregai anche sant'Alessandro Sauli. Ho imparato grazie a Carlo che i santi sono sempre presenti. Poco dopo rientrai in clinica. Mi permisero di vedere Carlo. Era ancora sotto il suo scafandro, sempre sofferente. Mi confidò che non era riuscito a dormire granché. Poco dopo, il medico che lo seguiva decise di chiedere il trasferimento all'ospedale San Gerardo di Monza, dove esiste un centro specializzato per quel tipo di leucemie. Ci portarono nel reparto di ematologia pediatrica, all'undicesimo piano, dove ci avevano riservato la stanza numero undici.

Alcuni infermieri lo adagiarono sul suo nuovo letto.

Carlo chiese che gli fosse amministrato il sacramento dell'Unzione degli Infermi. Le infermiere chiamarono il sacerdote cappellano dell'ospedale che ci portò anche la Comunione. Tornò nei giorni successivi.

Ricordo che infermieri e medici erano tutti molto stupiti di come Carlo affrontava quei momenti. Non si lamentava mai. Aveva le gambe e le braccia gonfie e piene di liquidi.

Le infermiere con il medico di turno gli rimisero in testa lo scafandro per la respirazione. Gli chiesero come si sentisse e lui con un sorriso rispose: «Sto bene, c'è gente che soffre molto più di me». Si guardarono fra loro incredule: sapevano quali sofferenze provochi quel tipo di leucemia. Eppure lui rispose cosi. Altri pazienti erano passati attraverso quei dolori. Sono lancinanti. Non danno tregua.

Carlo sembrava avere una forza non sua. Ricordo che pensai che soltanto quel suo forte e stretto legame con il Signore poteva fargli affrontare quella situazione in quel modo. Non fu l'eroismo di un momento. Fu il frutto di un rapporto coltivato giorno dopo giorno, ora dopo ora. Senza saperlo Carlo si era costruita la possibilità di vivere quel momento in quel modo.

Arrivò la sera e scese la notte. Dalle finestre dell'ospedale di Monza guardavo verso ovest, verso Milano. E iniziavo a domandarmi se vi sarei mai più tornata insieme al mio Carlo.

A me e a mia madre fu concesso di dormire insieme a lui. Verso l'una di notte mi appisolai per qualche minuto. Carlo non riusciva invece a dormire per il grande dolore. Tuttavia, lo sentii chiedere alle infermiere di turno di non fare troppo rumore così che io potessi riposare. Ma mi svegliai poco dopo.

Nonostante tanti dubbi e paure, speravo ancora che ce la potesse fare, mi aggrappavo a qualsiasi cosa nella speranza che potesse guarire. Anche se di continuo mi tornavano alla mente le parole che lui stesso volle dirmi appena arrivati a Monza. Ricordo bene, l'avevano da poco fatto scendere dall'ambulanza. Mi guardò e mi disse: "lo da qui non esco vivo, preparati".

Mi disse queste parole perché non voleva che arrivassi al momento della sua morte impreparata. Mi spiegò anche che dal Cielo mi avrebbe mandato molti segni e che per questo dovevo stare tranquilla. Volle in qualche modo avvisarmi, far sì che la sua morte non arrivasse nella mia vita troppo fulmineamente.

Qualche attimo prima di entrare in coma mi disse che gli era venuto un po' di mal di testa. Non mi allarmai particolarmente, perché continuavo a vederlo sì sofferente, ma insieme sereno. Pochi istanti dopo, invece, chiuse gli occhi sorridendo.

Non li riaprì più. Sembrava si fosse solo assopito, ma invece era entrato in coma a causa di un'emorragia cerebrale che nel giro di qualche ora lo condusse alla morte.

Clinicamente i medici lo considerarono morto quando il

suo cervello cessò ogni sua attività vitale. Erano le 17.45 dell'11 ottobre del 2006. L'11 ottobre, lo stesso giorno in cui morì il suo santo dell'anno, Alessandro Sauli.


11 ottobre.

Volevamo donare i suoi organi. Purtroppo però non ce lo permisero, perché ci dissero che erano ormai compromessi a causa della leucemia.

I medici decisero di non staccare il respiratore finchè il cuore non avesse smesso di battere da solo. Per questo motivo ci rimandarono a casa dicendoci che ci avrebbero telefonato non appena il cuore avesse cessato ogni sua pulsazione.


12 ottobre.

Quando il sacerdote diede la benedizione finale dicendo «la Messa è finita, andate in pace», per pura coincidenza le campane della chiesa iniziarono a suonare a festa. Sembrò a molti come se Carlo volesse renderci partecipi della festa che in Cielo con il suo arrivo era appena iniziata.

Ci venne data la notizia che il cuore di Carlo aveva smesso di battere alle 6.45 del 12 ottobre, vigilia dell'ultima apparizione della Madonna a Fatima. Per noi non fu un caso quella coincidenza. Avevamo perso l'unico figlio, un dolore immenso, ma ci sosteneva la speranza che non era scomparso definitivamente dalle nostre vite, anzi, che sarebbe stato più vicino a noi di prima e che ci attendeva per una vita migliore.

L'ospedale di Monza ci diede il permesso di portare il corpo di nostro figlio a casa. La sua stanza fu trasformata in camera ardente. Il suo corpo venne deposto nel letto. Lo guardavo e non mi sembrava vero: Carlo non c'era più.

La notizia della sua morte rimbalzò in tutto il quartiere, nella sua scuola, fra i conoscenti e gli amici, e anche su quelli che erano allora "social", come Messenger. Tutti i suoi compagni di classe, dall'asilo fino al liceo, vennero informati. Il tam-tam coinvolse tantissime persone. Tutti erano increduli e sgomenti.

In casa, da subito, cominciò un viavai continuo di persone. Tantissimi vollero venire a vederlo, a salutarlo. Ciò che mi è rimasto maggiormente impresso nella memoria di quei giorni mesti fu il fatto che più che essere consolata fui io a dover consolare gli altri. Sono grata di questo. Perchè l'essere costretta, come di fatto accadde, a dover confortare chi piangeva, a dire loro di avere fede, perché il nostro Carlo viveva in un'altra vita, è ciò che mi ha aiutata a non soccombere; che ha permesso che il mio profondo dolore fosse un po' lenito.

Misteriosamente e realmente, questo mio consolare gli altri riuscì in qualche modo addirittura a esorcizzare questo stesso dolore trasformandolo in dono.


Sabato 14 ottobre

Il giorno del funerale era una bellissima giornata, ancora molto calda, quasi afosa. Il sole splendeva in cielo, tutt'intorno a noi non c'era che luce. Il funerale fu un'attestazione di quanto Carlo fosse stimato e amato. C'erano tutti gli amici, e anche tutti coloro che Carlo aveva soccorso. I mendicanti, i senza tetto, i diversi stranieri che aveva aiutato nel corso della sua vita erano li perché avevano perso un vero amico.

Ricordo che alcuni di loro li vidi lì per la prima volta. Davvero Carlo aveva creato una grande rete di amicizia, una rete silenziosa, non del tutto visibile quando era in vita, ma che in quel momento si manifestò in tutta la sua grandezza e bellezza.

L'impressione di molti fu quella di non trovarsi a un funerale, ma a una festa. Sembrava la celebrazione di un passaggio verso un'altra vita, una vita vera. Piangevano tutti, vero, ma nello stesso tempo tutti percepivano la presenza di tanta luce. Era come se la vita in cui Carlo era approdato volesse in qualche modo farsi presente. E anzi, per certi versi lo era.»