Don Julián Carrón
Un grande maestro
abstract
Don Carron, the first chief of CL after the death of Don Giussani, was a great guide in the faith, faithful to the founder's charisma. The limits, which were also in its management of CL, are very little compared to its great merits. Carrón is an important resource in the CL movement and still has much to give now that he is no longer president of the fraternity.«Io non ritenni di sapere altro in mezzo a voi
se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor, 2,2)
in positivo
il cuore
Don Julián Carrón (nato nel 1950) è stato il primo successore (dal 2005 e fino al 2021) di Don Luigi Giussani alla guida del Movimento di CL, scelto dallo stesso don Giussani. Egli ha impostato fin dall'inizio il suo richiamo insistendo sul cuore, come criterio per verificare la verità/bontà della proposta cristiana. Ciò facendo egli si è opposto frontalmente a qualsiasi riduzione ideologica del cristianesimo, per cui il problema sarebbe capire delle idee, per poi applicarle. Senza essere attenti a ciò che ci rende più felici e più in pace, senza guardare a ciò che ci fa «vivere» meglio. Ma accontentandosi di «avere ragione».
una compagnia irriducibile
Se il cuore è il versante soggettivo su cui Carrón ha più insistito, l'altra parola-chiave, che riguarda il versante oggettivo, è la parola irriducibilità: il punto non è applicare quello che uno ha capito, ma seguire. Seguire una compagnia e una autorevolezza irriducibili. Irriducibili, non riducibili alle nostre misure. Il concetto di irriducibilità dice di una oggettività che noi non possiamo manipolare, e in cui si rivela una Misura più grande della nostra: qualcosa appunto di non-riducibile alla nostra misura, quindi il Mistero. Ma un Mistero non immaginato o pensato da noi, bensì presente in una oggettività carnale, concreta.
Anche nella sua ultima lezione come presidente della Fraternità di CL, alla “giornata di inizio anno 2021-22”, Carrón ha insistito sulla oggettività che il cuore può e deve riconoscere: il maestro da seguire non lo «si sceglie», al supermercato delle idee, ma lo si riconosce. È una oggettività da riconoscere. Non qualcosa da inventare noi, con nostre arzigogolanti alchimie.
Ci deve essere qualcuno da seguire, perché ci aiuta a vivere qualcosa che non si finisce mai di imparare, e non qualcuno con cui andare d'accordo, perché le sue idee collimano con le nostre, con quello che noi avremmo capito una volta per tutte e che adesso dovremmo solo applicare.
il negativo come possibile occasione
Ma l'apporto prezioso di Carrón non si limita a tali due coordinate generali: un altra sottolineatura per la quale non gli saremo mai abbastanza grati è quella della possibilità che le difficoltà e il negativo non siano di ostacolo, di scandalo, ma al contrario siano occasione perché uno possa sperimentare la vittoria di Cristo.
In questo senso la stessa tristezza che possiamo provare, l'inquietudine, l'insoddisfazione non sono qualcosa di insensato di cui liberarsi il più possibile, da cui distrarsi il più possibile: se ne viene colto il vero, non superficiale, senso, esse sono un'occasione, un invito su cui far leva per riconoscere Colui che, Solo, può colmare il nostro desiderio, il nostro cuore.
Legittimità e opportunità di una valutazione
«I tempi di crisi sono tempi (...) di discernimento critico di ciò che ha limitato la potenzialità feconda del carisma di don Giussani» (papa Francesco a CL, 15 ottobre 2022)
Un mio caro amico dice di non essere interessato a riflettere sui possibili limiti di Carrón. Al che io risponderei così: nemmeno io sarei interessato a scavare su possibili limiti morali della vita privata di Carrón (come di chiunque altro). Ma qui non si tratta di limiti morali, che riguardano una vita privata, si tratta di limiti di impostazione che riguardano la conduzione pubblica di una realtà pubblica come un Movimento ecclesiale, e che pubblicamente sono stati oggetto di critiche, anche aspre.
Quindi affrontare il nodo di tali critiche non significa aggiungere fango a fango, ma usare della ragione che il Mistero ci ha dato per contestualizzare, relativizzare e privare di velenosità le critiche, che, piaccia o non piaccia, ci sono (state).
C'è anche da dire che l'atteggiamento di chi non volesse nemmeno sentir parlare di possibili limiti della “gestione Carrón” causerebbe il, controproducente, effetto di confermare e alimentare l'accusa, fatta dai critici del prete spagnolo, di aver creato attorno a sé un alone di intoccabilità, cioè di aver inteso la “successione del carisma” in modo autoreferenziale. Che è l'accusa più grave a lui rivolta.
Una delle cose che ho dovuto imparare, quando facevo il commissario interno (e quindi l'avvocato degli studenti, il prof che conoscendoli bene, li “difendeva” dai commissari esterni, più portati a una implacabile severità) agli esami di maturità (secondo la “formula Sullo”, prima della riforma Berlinguer), è stata che il modo peggiore di difendere un alunno era ... difenderlo troppo, cioè non ammetterne nessun limite. Questo irrigidiva e irritava. Mentre una ragionevole ammissione dei difetti mi dava poi credibilità e capacità di difendere davvero gli alunni.
Aggiungo che la mia convinzione che sia opportuno riflettere mi pare sia incoraggiata da quanto ci ha detto papa Francesco il 15 ottobre 2022, in particolare la frase riportata in esergo a questo paragrafo: occorre un «discernimento critico di ciò che ha limitato la potenzialità feconda del carisma». E «discernimento critico» mi pare implichi un uso della ragione, della riflessione razionale, per (cercare di) capire. Così come mi pare debba essere presa sul serio (per cercare di capirla) la valutazione che ci sia stata una qualche “limitazione” della «potenzialità feconda del carisma», ossia che ci siano stati dei limiti. Limiti che io credo, lo ripeto, siano decisamente meno rilevanti dei meriti che si devono riconoscere a don Julian. Ma su cui non pare sarebbe saggio sorvolare.
Appunti per una valutazione
Io penso che Carrón abbia molti più meriti che limiti. Tuttavia anche questi ultimi ci sono stati: ogni essere umano, del resto, ne ha. Il fatto che Carrón sia (stato e sia) sostanzialmente fedele al carisma di Giussani non equivale a dire che egli non abbia fatto qualche sbaglio, o meglio non abbia avuto qualche limite. Del resto limiti ne aveva anche Giussani. Solo Cristo è perfetto.
E infatti entrambi questi poli, meriti e limiti, sono stati toccati da papa Francesco nell'incontro del 15 ottobre 2022:
«Bisogna ringraziare padre Julián Carrón per il suo servizio nella guida del movimento durante questo periodo e per aver mantenuto fermo il timone della comunione con il pontificato.
Tuttavia, non sono mancati seri problemi, divisioni, e certo anche un impoverimento nella presenza di un movimento ecclesiale così importante come Comunione e Liberazione, da cui la Chiesa, e io stesso, spera di più, molto di più.»
Papa Francesco ha detto che bisogna ringraziare Carrón: quindi ne ha escluso qualsiasi “colpa grave”: il positivo predomina nettamente.
Tuttavia egli ha parlato anche di aspetti negativi («problemi, divisioni») che ci sono stati, e che in qualche modo rimandano a possibili limiti della conduzione carroniana di CL.
Qui vorrei tentare di valutare sia i meriti sia i limiti di tale conduzione, convinto che i primi sopravanzano più che abbondantemente i secondi, ma convinto anche che il rifiuto di ammettere i secondi rischi di essere fortemente controproducente, rischiando di gettare un'ombra ingiusta anche sui primi e di offrire un pretesto a una ingiusta emarginazione di Carrón dalla vita del movimento di CL.
in sintesi
I nodi interpretativi della della “gestione Carrón” si possono ricondurre a due: uno metodologico e uno contenutistico.
- Il primo, metodologico, riguarda la questione di quanto egli si sia ritenuto e mosso come “erede del carisma”. In sintesi: Carrón si è effettivamente concepito come erede del carisma, ma senza che ciò possa più di tanto essergli imputato come una colpa: ne parlo qui.
- Il secondo, contenutistico, riguarda il rapporto fede/attualità. Su questo mi pare che egli abbia operato in modo prevalentemente positivo, opponendosi, come era giusto, al rischio di una impostazione teologico-politica, che riduceva la fede a fare battaglie contro il moderno, anche se poi si è spinto un po' troppo in là, al punto da non dare nessun giudizio, nemmeno generale, sull'attualità.
La questione metodologica
Ossia la “successione del carisma”.
«Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio» (Mt 12, 36)
«Dio si serve dell’effimero. Ritorna l’importanza dell’effimero: per ora, il paragone ultimamente con la persona determinata con cui tutto è cominciato. Io posso essere dissolto, ma i testi lasciati e il seguito ininterrotto - se Dio vorrà - delle persone indicate come punto di riferimento, come interpretazione vera di quello che in me è successo, diventano lo strumento per la correzione e per la risuscitazione; diventano lo strumento per la moralità. La linea dei riferimenti indicati è la cosa più viva del presente, perché un testo può essere interpretato anch’esso; è difficile interpretarlo male, ma può essere interpretato così.
Dare la vita per l’opera di un Altro implica sempre un nesso tra la parola «Altro» e qualcosa di storico, concreto, tangibile, sensibile, descrivibile, fotografabile, con nome e cognome. Senza questo si impone il nostro orgoglio, questo sì effimero, ma effimero nel senso peggiore del termine. Parlare di carisma senza storicità, non è dire un carisma cattolico.»
(Luigi Giussani, Il sacrificio più grande è dare la propria vita per l'opera di un Altro, §4)
Secondo alcuni, in modo più o meno velato, la gestione carroniana del dopo-Giussani avrebbe risentito di una tendenziale autoreferenzialità.
Robi Ronza ad esempio, con un articolo sul suo blog, auspica che finalmente si approfitti dello stimolo dato dal Decreto del Dicastero per i laici, che nel giugno 2021 ha di fatto posto fine alla presidenza Carrón, per avviare una responsabilizzazione di tutti i membri del movimento. Questi non devono più pretendere di ricevere soltanto, e passivamente, ma devono rimboccarsi le maniche e diventare responsabili in prima persona del carisma.
«Abbiamo (...) tutti quanti il dovere di rispondere, secondo i talenti e la vocazione di ciascuno, a quella chiamata alla responsabilità cui nella sua comunicazione dello scorso 29 novembre ci sollecita Davide Prosperi (...). Citando l’esempio del movimento francescano fece presente che la questione di chi succede al fondatore richiama molta attenzione nei primi tempi dopo la sua scomparsa, ma poi perde importanza. Oggi tutti ricordiamo san Francesco e abbiamo un’idea della spiritualità francescana, ma solo pochi addetti ai lavori sanno chi sia l’attuale Ministro generale dei Frati Minori e delle altre congregazioni eredi del carisma di san Francesco.»
Ora, è vero che Ronza, pur parlando in un altro passaggio di «reali o tendenziali distorsioni» ai vertici del Movimento, ne attribuisce la colpa non solo, e forse nemmeno soprattutto, agli stessi vertici, ma a quella “base” che per pigrizia ha preferito una obbedienza un po' pecoronesca al pieno esercizio del proprio senso critico; tuttavia il fatto che si sia pensato che dopo don Giussani fosse arrivato ... un nuovo don Giussani, nel senso di uno che aveva la stessa carismaticità del fondatore non può, se fosse vero, non essere almeno un po' colpa anche di chi avrebbe come minimo accettato di essere fatto oggetto di una tale sproporzionata devozione. Vi sono poi ulteriori critiche di Ronza, che trovo ancora meno fondate
ricerca del potere?
A me pare che a Carrón non possa proprio essere imputata una ricerca del potere: egli è sempre stato molto umile e non ha voluto mai imporre niente a nessuno. Anzi, se un limite ha avuto, come dirò poi, è semmai quello di aver dato fin troppo corda a chi gli remava contro, senza mai difendersi; non per nulla un suo libro si intitola «La bellezza disarmata».
Turbamento e sconcerto sono stati perciò alimentati da una certa recezione della lettera del card Farrell del 10 giugno 2022, che è potuta sembrare accusatoria nei confronti di Carrón, proprio sotto il profilo di cui stiamo parlando. Farrell infatti dice a un certo punto che
«la dottrina della “successione del carisma” - proposta e alimentata durante l’ultimo decennio in seno a CL da chi era incaricato della conduzione, con strascichi che vengono ancora coltivati e favoriti in occasione di alcuni interventi pubblici - è gravemente contraria agli insegnamenti della Chiesa.»
La possibilità che tali parole siano interpretate come un attacco a Carrón ha spinto un altro vescovo a esplicitare nel modo più netto che Carrón non è accusabile di personalismo. Ecco le parole del vescovo di Pavia, mons. Corrado Sanguineti:
«Carissimi amici, ho letto oggi la nuova lettera del cardinale Farell e la breve lettera di Prosperi. Da una parte sono addolorato e ferito da ciò che sta accadendo, dall’altra credo che pur con sacrificio e fatica dobbiamo seguire le indicazioni del Papa e dei suoi collaboratori, evitando divisioni, opposizioni, chiacchiere malevole tra noi. Non c’è niente di peggio che la divisione opera del Nemico. Per il resto guardiamo al carisma nel suo punto sorgivo che è don Giussani, guardiamo a tutta la storia di grazia di questi anni, guardiamo a quei punti vivi, a quei testimoni che rendono più trasparente ed evidente il volto di Gesù. Certo nell’obbedienza anche sofferta obbediamo da figli non da servi, non gettiamo discredito ingiusto su Carrón e sul servizio che ha svolto per anni nel guidare il movimento: in questo senso preghiamo perché chi oggi ha responsabilità di guida non si presti a questa “damnatio memoriae” e sappia affermare l’originalità del carisma. Sì, più che dividerci e discutere, preghiamo, siamo tesi a Gesù nella realtà e lasciamoci colpire da come Lui accade ora. Aiutiamo gli amici in questa ora così delicata per il nostro movimento.
C’è il rischio di una pesantezza di parole e di regole che possono soffocare la vita. Per questo stiamo all’essenziale e ogni giorno viviamo nella mendicanza di Cristo e nella tensione a lasciarci sorprendere dai segni della sua presenza.»
Che Carrón non abbia preteso di impossessarsi del carisma lo sostiene anche il cardinal Zuppi:
«In questi ultimi anni, ho incontrato e conosciuto don Julián Carrón. La prima cosa che mi ha colpito di lui è stata la consapevolezza di non essere Giussani e di voler accompagnare il cammino della Fraternità e dei Memores continuando il carisma non come una ripetizione meccanica, ma con una creatività generativa sul presente. In lui vedo un grande rispetto della coscienza della persona e nello stesso tempo un grande coinvolgimento nell’avventura, nella storia del carisma di Giussani. C’è una totale assenza di personalismo in lui.» Cardinale Matteo Zuppi
In sostanza, se c'è qualcosa che sarebbe assurdo attribuire a Carrón è la ricerca del potere, o di aver esercitato il potere in modo dispotico.
tuttavia...
Tuttavia la possibile parte di verità di questi rilievi, o meglio l'equivoco da cui penso essi nascano, può essere nell'impressione che Carrón può aver dato di ritenersi detentore in qualche modo infallibile del carisma, per il fatto di aver sempre evitato di dialettizzare, di discutere con chi lo criticava, come dirò poi: non è mai entrato nel merito della critiche che riceveva, soprattutto nel punto più contestato, il rapporto fede/mondo. E questo era interpretabile effettivamente come segno di superbia (come se dicesse “non mi abbasso a discutere con voi”). Nel senso che se uno non discute (non accetta di discutere con altri) le cose che dice e che fa, dà l'impressione di ritenere indiscutibili (=non discutibili) le cose che dice e che fa. E da lì a dare l'impressione di ritenersi lui stesso indiscutibile, e quindi infallibile, il passo non è poi così lungo.
Ma in realtà credo che anche la superbia possa essere esclusa come movente. Per quale motivo allora Carrón non ha dialettizzato con i suoi critici? Credo che una parte importante (probabilmente decisiva) di tale scelta vada cercata nella convinzione di essere portatore del carisma in un modo qualitativamente superiore agli altri. E ciò in virtù di un mandato ricevuto dal fondatore di CL. Di una sorta di consegna testamentaria. Ecco che cosa disse infatti Giussani a Scola, in una importante intervista:
«Lo Spirito che dà un carisma ad una persona è lo Spirito di Cristo. Proprio perché il carisma è dato per incrementare la storia del Corpo di Cristo, credo che lo Spirito possa donare lo stesso carisma ad un altro se vuole che i suoi effetti permangano.» (da “Il "potere" del laico, cioè del cristiano”. Intervista con don Angelo Scola, Trenta giorni, agosto-settembre 1987, p. 46.
Per approfondire.
Sul concetto di carisma si veda la distinzione tra due tipi di grazia.Questa interpretazione pare confermata dal fatto che Giussani pensava molto probabilmente (ad esempio quando parla di successione ininterrotta di coloro che avrebbero guidato il movimento dopo la sua morte, e che egli definisce «riferimenti indicati») a un mandato (non formalmente masostanzialmente: perché l'assenza, nello Statuto della Fraternità voluto da Giussani, di limiti alla rieleggibilità rende possibile un prolungamento indefinito del mandato: si veda qui) sostanzialmente vitalizio, del suo successore, e ciò non pare sia solo questione quantitativa (di quantità temporale illimitata) ma anche qualitativa. E questo sembra perfettamente compatibile proprio con ciò che il card. Farrell ritiene sia “contrario alla dottrina della Chiesa”, ossia “la successione del carisma”. Il successore cioè avrevbbe pututo essere investito di una grazia particolare, una grazia gratis data, che lo avrebbe posto qualitativamente al di sopra degli altri membri del movimento e gli avrebbe conferito una sorta di infallibilità (paragonabile, nel suo piccolo, all'infallibilità pontificia: il parallelismo tra Chiesa e movimento venne tematizzato da Giussani nella appendice alla prima edizione cartacea di Alla ricerca del volto umano).
Questo sembrerebbe contraddetto da quanto Giussani afferma nella Tischreden “Questo sì e basta” (in Affezione e dimora, p. 204) in cui egli dice di non aver niente di più di quello che hanno le memores Domini che sembrano lamentare di avere qualcosa in meno. Sulla stessa linea sembra essere stato anche Carrón, quando egli negava di avere qualche “manuale segreto” speciale, in cui imparare come si conduce il movimento: non ha a disposizione altro che gli stessi testi di Giussani che tutti possono leggere.
Tuttavia queste espressioni sembrano riguardare solo uno dei due tipi di grazia distinti da Tommaso d'Aquino, ossia la grazia gratum faciens, non la grazia “carismatica”, gratis data. Per quest'ultima può rimanere vero che essa sia data ad alcuni, in particolare a chi guida, più che ad altri.
Ora, Carrón ha preso molto sul serio questa aspettativa di Giussani, e la grande responsabilità derivantene. Con le migliori intenzioni del mondo. È sì probabile che a un certo punto lo abbia fatto in un modo, che, almeno col senno di poi, possiamo valutare come un po' rigido e unilaterale.
Ma nel momento in cui Giussani affida a Carrón la guida di Cl, la Chiesa non ha ancora definito (mi viene fatto notare che non è mai stato citato un testo ufficiale della Chiesa, in cui sia formalmente definito il concetto di successione del carisma, con relativa, formale e precisa, condannasemmai lo abbia fatto, successivamente) come erronea la “successione del carisma”. E Carrón, prendendo sul serio tale convinzione di Giussani non ha perciò commesso alcuna colpa sostanziale. Perché finché una certa convinzione non è stata espressamente condannata dalla Chiesa , sostenerla non è una colpa. Che poi, ripeto, sia stato un po' rigido e schematico nell'applicarla, non confrontandosi (se non “a distanza” e con fugaci cenni) con i suoi critici, questo è un altro paio di maniche.
davanti al Decreto
Come ha vissuto Carrón il Decreto del Dicastero, un Decreto che appunto entrava decisamente in rotta di collisione con l'idea di successione del carisma?
In sintesi, mi pare si possa dire che Carrón abbia dato l'impressione di subirlo. È vero infatti che Carrón non ha mai detto niente contro il Decreto. Ma non ha mai nemmeno cercato di commentarlo positivamente, sciogliendo i molti dubbi che esso aveva fatto nascere, soprattutto tra i suoi estimatori, come in passato aveva fatto con diverse prese di posizione papali, che erano state mal comprese e mal giudicate da molti (si pensi alla Amoris laetitia). Il suo silenzio, stavolta, ha potuto essere interpretato come assenza di cordiale condivisione del Decreto. Le sue dimissioni, abbondantemente anticipate rispetto ai due anni concessi a tutti i responsabili ultimi di realtà laicali, sono potute sembrare una conferma di un suo non sentirsi pienamente a proprio agio con il Decreto e quindi non sentirsi di guidare il Movimento a vivere questa nuova fase, di applicazione di quello.
In questo modo però Carrón ha finito col rendere lui stesso punitivo nei suoi confronti qualcosa che in sé non lo era. Non lo era, perché rivolto indistintamente a tutte le realtà carismatiche laicali. E non lo era perché lo stesso Pontefice ha motivato la necessità del Decreto con casi di abusi di potere presenti in realtà diverse da CL, e con la generale inclinazione umana a vivere in maniera possessiva: niente cioè di personale contro di lui. Senza contare che il papa aveva piuttosto buoni motivi per apprezzare Carrón, che lo aveva sempre difeso, piuttosto che per avversarlo (anche se probabilmente non mancavano anche motivi di scontento , ma senza paragone più circoscritti dei motivi di apprezzamento). È vero che i critici di Carrón all'interno di CL hanno probabilmente fatto di tutto perché, in un modo o nell'altro, egli “mollasse”, e quindi essi hanno esultato alla notizia del Decreto; ma questo non significa che il Decreto fosse intrinsecamente “contro Carrón”: mi pare sia stato proprio il suo silenzio, interpretabile come tacita incomprensione della positività del Decreto, ad aver poi contribuito a renderlo di fatto tale.
Il temperamento
Dopo la morte di Benedetto XVI mi è venuto da considerare un fattore che in precedenza avevo sottovalutato: il temperamento, le “doti naturali”.
Se Carrón non ha dialettizzato con i suoi critici, se non si è attivamente mosso per far rientrare il dissenso che covava sempre più nei suoi confronti, non è (probabilmente) solo per quanto detto fin qui (la fedeltà all'idea - giussaniana - di unità tra carisma e ruolo istituzionale anche nei suoi successori), ma anche per il suo non essere “un politico”. Un politico è appunto uno che è attento al consenso e agli umori della “base”. Non per assecondarli a qualsiasi costo, ma per tenerne comunque conto. Un politico, diceva Machiavelli, deve essere un po' “golpe” e un po' “lione”, cioè astuto (come una volpe) e energico (come un leone). Dove l'astuzia, in un cristiano, non significherà “falsità”, ma prudenza “come serpenti”. Ora, a Carrón, mite e schivo, nulla è più estraneo che queste doti di politico.
Egli non ha niente della “golpe” o del “lione”. E ha puntato tutto sulla sua carismaticità, sul testimoniare la bellezza dell'esperienza della fede, disinteressandosi del potere.
Dopo Carrón, il paradiso? Un'attesa ingannevole
Un rischio nella tesi di Ronza sopra riportata sarebbe il sottinteso, se vi fosse, che “adesso sì che abbiamo capito”, “adesso sì che andrà tutto bene”. Io credo che avesse invece ragione Carrón a mettere l'immagine della barca nella tempesta all'ultima giornata di inizio anno da lui tenuta (nel settembre 2021): come sempre la vita non è né tragica (fine necessariamente negativa) né comica (fine necessariamente positiva), ma è drammatica (come andrà a finire non è già scritto, dipende da come uno usa la sua libertà). Anche perché ritenere che non ci sia nessun pericolo e che andrà senz'altro e per forza “tutto bene” è il modo migliore perché le cose vadano poi male. Come uno che in montagna ignora il rischio di cadere in un precipizio si mette nelle condizioni migliori per caderci davvero.
Non è affatto detto che “andrà tutto bene”.
In questo senso un mio amico ha recentemente detto di non provare grande passione per la questione di chi guiderà il Movimento, perché «il problema è l'io». Ora questo è vero solo in parte.
È vero cioè che il mio rapporto personale con Cristo non me lo può levare nessuno: come dicevano i Padri del Deserto e come hanno sempre ripetuto tutti i maestri di spiritualità «non può avere pace l'uomo che non ragioni come se al mondo esistessero solo lui e Dio». Lo dice anche il salmo 90 (91) «mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma niente potrà colpire te» (se tu stesso non lo vorrai, abbandonando Cristo). Lo diceva anche S.Agostino: «Deum et anima meam scire cupio (...) Nihil aliud». Ma dal punto di vista del Movimento, nella sua storica e concreta oggettività, non è affatto indifferente chi lo gestirà. Il mio amico diceva: «tanto i richiami che ci faranno sono sempre gli stessi». Non è affatto detto che lo saranno, non è affatto escluso che chi guiderà il Movimento possa deviare verso una deriva ideologica. Ne abbiamo degli esempi in altri movimenti: basta pensare ai Legionari di Cristo.
La questione contenutistica: irenistica arrendevolezza?
«Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero,
se poi si perde o rovina se stesso?» (Lc 9, 25)
A livello di contenuti, Carrón è stato accusato di non aver non dato giudizi di fede sull'ambito profano, di aver fatto una sorta di “scelta religiosa”, impostazione che che era stata espressamente stigmatizzata da Giussani. Vediamo qualcosa su quanto vi possa essere di sbagliato e quanto di giusto in tale accusa.
Si tratta di un'accusa a Carrón partita dai settori, diciamo, politicamente ultraconsevatori del Movimento, che implicherebbe di aver tradito in qualche modo il carisma di Giussani. Per il fatto che mentre don Giussani dava anche delle indicazioni politiche (o meglio per lo più lasciava che fossero altri, comunque autorevolmente, a darne, da lui non smentiti), ma soprattutto spingeva (anche) a fare delle “battaglie” politiche, tipo contro il divorzio o l’aborto, Carrón ha scelto di non dare più indicazioni di voto, e soprattutto di non impegnare più il Movimento in quanto tale in battaglie politiche a difesa di quelli che gli ultraconservatori identificano (a mio parere fraintendendo Benedetto XVI) come “principi non-negoziabili”, sui quali pertanto un cristiano dovrebbe fare una battaglia all’ultimo sangue, rifuggendo da ogni mediazione e compromesso.
Ora, è incontestabile che un cambiamento ci sia stato. Ma è questo cambiamento in contraddittoria discontinuità con la storia precedente?
Il movimento è «in movimento»: inevitabilità di cambiamenti
Don Giussani lo diceva fin dal ‘68: il movimento è «in movimento», non è imbalsamato in forme statiche e incapace di nuovi giudizi.
A Varigotti nel 1968 ad esempio Giussani dice che ci sono cose che lui faceva all’inizio, ma che oggi non farebbe più (cioè, in quel caso, proporre l’esperienza del movimento in nome di una lealtà alla tradizione in cui uno è nato). Quindi c’è stata una evoluzione, un cambiamento. Di cui nessuno si scandalizzava.
Ancora Giussani negli anni ‘70, intervistato da Robi Ronza, riconosceva inoltre che una certa impostazione di GS degli anni ‘60 aveva dei limiti (non c’era stata abbastanza culturalizzazione dell’esperienza di fede e questo aveva contribuito a lasciare molti sguarniti davanti allo sconquasso del ‘68) e quindi andava superata. Anche lì: evoluzione. Di cui nessuno si scandalizzava.
Quando ero studente liceale, si diceva, scherzando tra noi del Movimento, che uno era «giessino» (allora questo termine non designava, come adesso fa, gli attuali studenti di CL, ma i “ciellini” ante-68), per dire che si era fossilizzato sugli anni ‘60, sulla impostazione degli anni ’60. Segno che si avvertiva chiaramente un cambiamento intervenuto. Di cui nessuno si scandalizzava.
Quando poi ero studente universitario tra noi del CLU c’era il giudizio che finalmente, dopo una precedente impostazione (iper-)comunitaria, schematica, era venuto il “tempo della persona”, con una nuova importanza della libertà e della responsabilità personali. Anche qui: un cambiamento. Di cui nessuno si scandalizzava.
Ma tantissime volte Giussani aveva detto «finora abbiamo fatto “x”, adesso è venuto il momento di fare “y”». Tra i tanti esempi, ricordo che nella prima metà degli anni ‘80, Giussani disse qualcosa del tipo: «finora abbiamo puntato (soprattutto) sulla fede, adesso dobbiamo insistere sulla speranza» (citazione ovviamente non letterale). Anche lì: evoluzione. Di cui nessuno si scandalizzava.
Non per nulla, come accennavo all’inizio, tra noi universitari del CLU girava questa sottolineatura, che il Movimento è «in movimento».
Dunque che ci sia un cambiamento, non è (necessariamente) in contraddittoria discontinuità con il modo con cui Giussani soleva guidare CL.
Resta adesso da vedere se questo cambiamento lo sia o meno.
Un cambiamento non di sostanza
Vediamo: che cosa è cambiato? Don Giussani ha sempre detto che scopo del movimento è educare alla fede. È forse cambiato il modo di educare alla fede? Pare che i suoi stessi critici non abbiamo riserve su questo punto. Del resto Carrón, nei suoi richiami fa riferimento all’80-90% a discorsi di Giussani.
Dunque il cambiamento non riguarda l’educazione alla fede, ma il rapporto col mondo, con la politica. Osserviamo al riguardo che il fatto che in questo ambito ci siano diverse valutazioni non scandalizzava Giussani. Ad esempio egli stimava un errore il fatto che la gerarchia ecclesiastica si fosse opposta in modo duro all’introduzione del divorzio in Italia, avvallando il rifiuto, fatto da chi guidava la DC, della proposta andreottiana di mediazione (“concedere” la possibilità del divorzio a chi si sposava civilmente, lasciando però l’indissolubilità, anche civile, del matrimonio per chi si sposava religiosamente), e riteneva che tale linea “dura” fosse un errore, un errore dovuto a una percezione erroneamente ottimistica della reale incidenza del cristianesimo sulla società italiana contemporanea; tuttavia tale errore non lo scandalizzava, non innescava in lui una polemica acre contro la gerarchia, anzi il movimento nel ’74 si mobilitò senza risparmio di energie nella campagna referendaria per l’abrogazione del divorzio, che pure era una battaglia che secondo lui sarebbe stato possibile e auspicabile evitare, se ci fosse stata più prudente saggezza (nella linea di Andreotti).
Il minimo che si può dire dunque è che Giussani non assolutizzava la questione “politica”, il rapporto Chiesa/mondo: non ne faceva una questione dirimente. Ricordo ad esempio la risposta che diede a Robi Ronza sulla possibilità che un ciellino non aderisse a Movimento popolare, che era lo strumento semi-ufficiale di raccordo pre-partitico dei ciellini (e non solo) impegnati in politica: tale possibilità non lo scandalizzava, né lo inquietava. Era una possibilità da mettere in conto, rispettando la libertà della persona.
Un cambiamento in buona compagnia
Resta il fatto che certamente qualcosa è cambiato nell’impostare il rapporto Chiesa/mondo, movimento/politica. Vero, ma cominciamo col notare un punto tutt’altro che trascurabile. Questo cambiamento non ha riguardato il solo movimento di CL, ma la stragrande maggioranza della Chiesa (italiana), almeno successivamente a quella che potremmo chiamare l’era Ruini-Bagnasco, allorché la presidenza della CEI era fortemente impegnata in politica (si veda il nostro post sul rapporto vescovi-politica). Un esempio per tutti è il fatto che gli ultimi Family Days, caratterizzati per una fortissima polemica contro i “diritti” LGBT, visti come minacciosi verso la famiglia (discutibilmente, visto che la crisi della famiglia comincia ben prima che di tali diritti si cominci a parlare), e contro i quali si pensava di opporre una resistenza all’ultimo sangue, sono stati disertati (=non c’è stata adesione ufficiale) da quasi tutto l’associazionismo cattolico e da quasi tutti i movimenti ecclesiali (se si eccettuano i neo-catecumenali); segno di un cambiamento di atteggiamento rispetto all’era Ruini-Bagnasco; legato a questo c’è stata l’approvazione delle unioni civili, che è stata possibile, a detta di molti e anche a mio avviso, (solo) grazie alla scelta di gran parte del mondo cattolico italiano di non fare più barricate, come pochi anni prima ai tempi dei DICO.
Che cosa è cambiato nella Chiesa italiana? C’è molto meno la volontà di legare la fede a scelte politiche specifiche, determinate, e quindi molta minor interferenza della gerarchia ecclesiastica nelle vicende politiche e legislative italiane, e molto maggior rispetto dell’autonomia del laicato cattolico.
In questo senso il cambiamento attuato da Carrón è stato in sintonia con la nuova “linea” della Chiesa italiana, e, in neanche tanto ultima analisi, con la “linea” del nuovo papa, Francesco.
Non è un caso, allora, che i critici di Carrón siano stati anche critici della presidenza CEI e del Papa. Al punto tale che molti di tali critici non indietreggiavano ad appoggiare quel Socci come da un certo punto in poi ha smesso di farequando negava che papa Francesco sia il legittimo papa (si veda il nostro intervento sulla criticabilità del papa), e alcuni di loro sostengono proprio che non sia papa, ma “il signor Bergoglio”, “quell’individuo”, eletto “dai cardinali massoni” (sic!) per sfasciare la Chiesa. Questo è il livello della polemica. Questi sono i critici di Carrón.
Giussani avrebbe approvato una tale contestazione aspra e maligna verso il Vicario di Cristo?
Assolutamente no.
Lui ha sempre rispettato e insegnato ad amare il Vicario di Cristo. E anche verso il suo vescovo ha avuto sempre rispetto, anche laddove quello, come nel caso del card. Colombo, non lo capiva e non lo valorizzava.
Un cambiamento opportuno
Tuttavia non è detto che tutti i critici di Carrón siano estremisti; alcuni, più moderati, potrebbero dire: va bene, il Papa e la Chiesa italiana hanno adottato questa linea, e noi non li demonizziamo, non diventiamo sedevacantisti, però anche loro possono sbagliare. Meglio stare con Giussani che con un Papa e una Chiesa che, senza essere eretici, sbagliano linea sul rapporto con mondo moderno.
Vediamo allora di dire qualcosa sulla ragionevolezza di questa linea, più dialogica verso il mondo moderno.
Vorremmo dire che questa linea è sia 1) virtù sia 2) necessità.
1) É virtù perché è più rispettosa della dignità e della libertà della persona, a) sia della persona del credente, che non può essere telecomandato come se fosse privo di ragione e di senso critico, tanto necessari in questioni “profane”, in cui non si possono dedurre dalla fede risposte belle e pronte (come pure in passato si è fatto, pretendendo di dedurre dalla fede il geocentrismo, ad esempio), b) sia della persona del non-credente, che potrebbe trovare un ostacolo a credere nel fatto che quell’autorità che dovrebbe trasmettergli la fede si impunta sul dettaglio di questioni “profane”, su cui lui ha tutt’altre idee (“profane”), si fa cioè conoscere avendo come tratto distintivo non l’annuncio di un Evento imprevedibile, ma la pretesa di imporre delle norme, la cui ragionevolezza non è evidente alla mentalità oggi prevalente. Si veda quanto abbiamo detto nel già citato intervento su vescovi e politica.
2) Ed è comunque necessità perché non siamo più in una cristianità, ma in una società pluralista, se non multiculturale, in cui l’identità cristiana è solo una delle tante identità, a cui non conviene pretendere di im-porre niente, ma a cui conviene pro-porre, con argomenti (razionali ed esperienziali), spogliandosi di ogni tentazione clericale. E questo, a livello politico, è compito dei laici, che giocano sul campo la loro umanità, lievitata dall’Avvenimento.
Tutto questo ha come sottofondo l’idea che è possibile incontrare l’altro, l’altro per quanto diverso da noi, in modo non ideologico, oltre ogni schema prefissato, aperti a quanto il Mistero, che è sempre più grande dei nostri progetti, può far accadere e che certo accade se due umanità di confrontano sulla base dell’umano e quindi dell’esperienza e della ragione, comune a tutti gli uomini. Sapendo che abbiamo da imparare potenzialmente da chiunque.
Ma, chiediamoci: faceva così Giussani? Dava importanza all’umano? Era aperto anche ai non-credenti? Sì. Infatti: non aveva forse una predilezione per il non-credente Leopardi? Non ne aveva scelto una poesia, apparentemente profana, come ringraziamento alla comunione? Non valorizzava il massone Mozart? Non valorizzava l’ateo Pascoli? Non valorizzava l’ateo Pasolini? Non valorizzava lo stesso super-ateo Nietzsche? Talora era anzi, almeno in privato, più critico verso certuni, che, nella Chiesa, pensavano di aver capito tutto di Dio (che lui non a caso chiamava più spesso con la parola “Mistero”), senza avvertire l’urgenza della domanda umana, quali mestieranti formalisti, di quanto non lo fosse per chi cercava sinceramente una risposta al bisogno di felicità.
Buon discepolo, in questo, del Maestro che era più vicino a «prostitute e pubblicani», che non ai farisei e agli scribi, che pretendevano di avere capito tutto di Dio, e così non entravano loro nel Regno ed impedivano ad altri di entrarvi:
C'è stata sì una qualche discontinuità con Giussani ...
Certo, ci sono nella vita e negli scritti di don Giussani momenti di scontro anche duro col “mondo”. Ricordo ad esempio il caso della prima guerra del Golfo o il caso di Tangentopoli. Lì, su vicende politiche giocò tutta la sua autorevolezza “spirituale”. Vero.
Nel caso della prima guerra del Golfo, si potrebbe ricordare che essa venne appoggiata proprio da tanti di coloro che oggi criticano Carrón e papa Francesco, e che difendevano più gli interessi USA e israeliani (o meglio delle destre americana e israeliana, con la loro idea di “annientare il nemico”) che non quelli dei cristiani mediorientali.
In quella circostanza a) era appunto in gioco qualcosa che a Giussani pareva evidente, la sopravvivenza di una presenza cristiana in Medio Oriente, e b) che invece praticamente tutte le fonti di informazione ignoravano, osannando a senso unico la guerra; e questo disorientava molti credenti. Molti credenti, prima dei giudizi de Il sabato, bevevano, io compreso, l'interpretazione dominante che vedeva la guerra come giusta. La storia ha dato ragione a Giussani, mostrando come la vita dei cristiani sia talmente peggiorata in Medio Oriente da consigliarne a moltissimi la fuga.
Quanto a Tangentopoli anche lì c’era da svegliare le coscienze intorpidite da una massiccia campagna mass-mediatica a senso unico che demonizzava la Prima Repubblica, dipingendola come totalmente negativa, in modo falso. E protagonisti di primo piano della Prima Repubblica erano state persone di fede (anche vicine a CL, come Sbardella o Andreotti) o comunque - come dire - leali con la comunità cristiana, come quel Craxi che disse che nella società di oggi c’è bisogno di «più Cristo».
Anche qui credo che si possa dire che Giussani percepiva che a) la posta in gioco era molto alta per una presenza cristiana e che b) si trattava di svegliare le coscienze, dato che quasi tutti (almeno quasi tutti quelli che si facevano sentire) seguivano pedissequamente la narrazione dominante, secondo cui la prima Repubblica, a guida sostanzialmente (demo)cristiana (e con alleati non ostili alla fede, come Craxi) era totalmente marcia e che finalmente si faceva pulizia.
In entrambi i casi si trattava di a) andare controcorrente per b) difendere un valore importante minacciato.
... ma è stata una discontinuità ben giustificata ...
Allora perché Carrón non è stato altrettanto battagliero?
Senza alcuna pretesa di farmi suo interprete, credo di averlo sostanzialmente spiegato:
1) da una parte è cambiato il contesto storico, come ha detto papa Francesco stiamo vivendo non “un’epoca di cambiamento”, ma “un cambiamento d’epoca”. Da una parte non ci sono più ideologie totalizzanti (occidentali, almeno) radicalmente anticristiane, come lo erano stati nel ‘900 il marxismo/comunismo e il nazi-fascismo. Prevediamo qui l’obiezione degli ultraconservatori: il gender! Evidentemente in chi guida la Chiesa e il movimento c’è una valutazione diversa sulla sua pericolosità: estremamente contagioso per l’ultra-destra (che giudica attraente il comportamento “diverso”: come potrebbe essere contagioso se non fosse attraente e gustoso?), circoscritto e non-contagioso (perché radicato in vissuti di sofferenza personale propri solo di alcuni esseri umani) per chi guida la Chiesa. Si può vedere quanto abbia scritto riguardo all’omofobia.
Quindi non si sono date, almeno finora, situazioni di reale minaccia alla libertas Ecclesiae, che è poi il valore da salvaguardare.
2) Dall’altro, parallelamente, c’è stata una maturazione della coscienza teologica, nel senso che è venuta definitivamente meno la cristianità, e non può essere accettata la infida tentazione di cavalcare le forze che propongono una nuova religione civile, approfittando dello smarrimento generato in molti dal “cambiamento d’epoca”, dato che tale “religione civile” non avrebbe niente a che fare con la fede, che è personale, e anzi potrebbe, legandosi a valori politici di parte, allontanare molti dalla fede.
Insomma quello che importa non è che la società sia “cristiana” (il che del resto, facilmente, nei progetti degli ultraconservatori, significherebbe una sottolineatura unilaterale di alcuni valori, scartandone del tutto altri, come la solidarietà e la giustizia), quello che importa è che la persona possa incontrare Gesù Cristo, possa essere educata alla fede (si veda anche qui: sulla importanza da attribuire alla politica e alle leggi).
Insomma non importa la cristianità, ma il cristianesimo. La prima verrà, se Dio vorrà, come Dio vorrà e quando Dio vorrà.
... anche se vissuta in modo un po' unilaterale
Questo non significa che il modo con cui Carrón ha gestito questa maggior distanza critica della proposta di fede dalle sue possibili implicazioni sull'ambito profano sia stato esente da limiti: è probabile che egli abbia un po' esagerato. Nel senso che era sì giusto non dare indicazioni specifiche e giudizi troppo dettagliati, ma non dare nessun giudizio e nessuna indicazione era, credo, un po' eccessivo. Ne parlo qui sotto.
La questione contenutistica: possibili effettivi limiti
«Haec oportebat facere, et illa non omittere» (Mt, 23, 23)
Pur muovendosi in una giusta direzione, Carrón ha esagerato, a mio umile avviso, nel non dare, come ho detto alcun giudizio di fede sull'ambito profano. Perché? Tale limite di aver slegato un po’ troppo fede e ambito profano mi sembra anzitutto legato all'idea di non potersi permettere il lusso di sbagliare, per via della grave responsabilità ricevuta da Giussani. Ma oltre a ciò esisteva probabilmente anche una certa diffidenza verso il concetto, qualcosa che in termini filosofici chiamerei logofobia.
una eccessiva diffidenza verso il concetto
La radice di questa, oltre al già accennato timore di tradire la fiducia riposta in lui da Giussani, mi pare sia stata (almeno) duplice: 1) il tipo di formazione intellettuale di Carrón, biblista, e 2) la reazione a una precedente tendenza teologico-politica un po’ troppo schmittiana.
1) Ricordo che von Balthasar in una intervista lamentava che i teologi biblici sono un po’ troppo diffidenti verso la speculazione razionale, verso il logos. Ne segue una dicotomia tra la teologia biblica e la teologia speculativa. Rifarsi alla Parola di Dio è certo importantissimo, e in generale un cristiano deve anzitutto custodire in atteggiamento di silenzio interiore un dono imprevedibile che gli viene fatto. La passività deve prevalere sulla attività (anche come attività di concettualizzazione). Lo stupore ha un primato sul concetto. Ma primato non è esclusione. Il primato della recettività e dell'esperienza non è alternativo a uno sforzo di comprensione anche razionale, purché fatto all’interno della fede. Seguire viene prima ed è più decisivo del capire, ma non esclude il capire. La Chiesa cattolica ha sempre valorizzato lo sforzo per capire il più possibile e cogliere il più possibile i nessi delle verità di fede tra loro e con l’insieme dello scibile umano. San Paolo stesso ce ne dà una prova negli inni cristologici delle lettere ai Colossesi e agli Efesini, ma un po’ anche altrove, dove non si limita ad annunciare un fatto o dei fatti, ma cerca, per quanto balbettando, di coglierne, con grato stupore, la logica.
Se capire (e quindi argomentare, anche dialettizzando) fosse alternativo a seguire i cristiani non dovrebbero coltivare la filosofia. Ma la Chiesa ha fatto santi dei filosofi, come S.Agostino e S.Tommaso d'Aquino, e fa studiare filosofia nei seminari, e valorizza lo sforzo per le prove razionali dell'esistenza di Dio, tanto che il Concilio Ecumenico Vaticano I ha previsto la scomunica per un cristiano che neghi la possibilità per la ragione di argomentare razionalmente l'esistenza di Dio.
Del resto don Giussani quando insegnava al Berchet dialettizzava con i suoi studenti (ne parla a volte come di «alterchi»); non si limitava a dire «fate esperienza», «capirete solo facendo esperienza»: proponeva l'esperienza e forniva delle ragioni che tenevano conto delle obiezioni che gli venivano fatte, nel modo argomentativamente più completo. E infatti il suo testo Il Senso religioso è tutto intessuto di argomentazioni razionali, non si limitava a invitare a una esperienza, pur essendo questa decisiva. Decisiva, ma non esclusiva.
Ora, Carrón è, come studioso, un biblista, e in quanto tale corre il rischio di tutti i biblisti: quello di “diffidare” un po’ troppo della capacità della ragione di capire e di connettere. Di dispiegare fino in fondo l’arco delle proprie capacità. Probabilmente per l'inconscio pensiero che ciò sarebbe un prometeico tentare di impossessarsi di qualcosa che deve restare totalmente ineffabile.
2) Ma in secondo luogo una maggior distanza critica tra fede e cultura può essere letta come reazione a un eccesso di segno opposto, soprattutto in ambito politico, l’eccesso di pretendere di ricavare dalla fede dettagliate indicazioni operative, specie politiche. Giussani stesso non era esente da questo rischio (opposto), vuoi per il suo temperamento impetuoso, che lo portava a desiderare risposte precise e decise, vuoi per il contesto storico della sua formazione, soprattutto il secondo dopoguerra e poi la progressiva erosione della incidenza cristiana sulla società, un contesto in cui la fede veniva vivacemente contestata (e in alcuni Paesi violentemente perseguitata): e Giussani sbottava, si vedano i diversi episodi da lui stesso riferiti, di lui che, apostrofato da comunisti e anticlericali ora su un tram, ora su un treno, ora su un lungomare, reagisce rendendo pan per focaccia, in modo decisamente battagliero. In questo senso anche Borghesi nota come vi fossero in Giussani dei residui di “teologia politica”: l’idea che la comunità cristiana sia sotto attacco da parte di un “mondo” ostile e che essa debba perciò reagire compattamente e con una giusta dose di aggressività. Del resto, ripeto, il contesto di allora giustificava (almeno in gran parte) questo piglio più battagliero dato che nei paesi comunisti la Chiesa era effettivamente perseguitata e in Italia il PCI, legato a tali paesi, era minacciosamente forte.
Di residui marginali comunque si trattava, in Giussani, perché questa componente era bilanciata in lui da una controspinta tutt’altro che esile verso l’apertura all’alterità: si pensi alla sua valorizzazione di pensatori non cristiani come Leopardi, Pascoli, Pasolini, lo stesso Nietzsche; si pensi al suo grandissimo rispetto per chi non era credente e alla sua volontà di non forzare nessuno alla conversione alla fede cattolica (ognuno deve andare a fondo della tradizione in cui Dio l’ha fatto nascere); si pensi al fatto che solo obtorto collo Giussani chiese al movimento di partecipare alle campagne referendarie contro divorzio e aborto, giudicando un errore, sia pure più tattico che strategico, una guerra del genere.
È comunque un fatto che i ciellini, vivente don Giussani, erano abituati a votare compattamente per la stessa forza politica (tipicamente, in pratica, la DC) e il più possibile per gli stessi candidati (aiutati in ciò dalla presenza nell’agone politico di persone del Movimento, come Formigoni). Questo legame molto stretto tra fede e politica poteva però comportare conseguenze negative, di cui si è preso sempre più coscienza, dato che in tal modo si rischiava di tagliar fuori dalla possibilità di recepire l’annuncio della fede le moltissime persone che non si riconoscevano nelle scelte politiche fatte “dal Movimento” in quanto tale. Insomma politicizzare la fede ostacolava la missione.
Carrón ha reagito a tale eccesso “teologico-politico”, credo soprattutto per il fatto di trovarlo di ostacolo alla missione, in un mondo in cui le ideologie erano crollate e non esistono più, almeno in Europa, pericoli di persecuzione esplicita e violenta contro la fede, ma al contrario si è creato un clima in cui molti non credenti cercano sinceramente il senso della vita e sarebbero allontanati dall'accostarsi alla comunità cristiana se questa sostenesse, in quanto tale, tesi (politiche dettagliate) che confliggono troppo duramente con quanto hanno sempre pensato e per cui hanno lottato. Insomma dettagliare una linea politica articolata può costituire un muro verso persone, nostri fratelli, verso cui il nostro compito precipuo è annunciare Cristo, piuttosto che raddrizzare loro le idee (politiche).
Carrón ha però forse rischiato l’eccesso opposto a quello della teologia politica, nel pur lodevole intento di non porre ostacoli alla missione. Non solo infatti non venivano da lui date indicazioni dettagliate, specifiche, su questioni “profane” (culturali e politiche), ma non veniva data praticamente nessuna indicazione, se non timidissimi cenni, allusioni velate. Senza dispiegare argomenti in modo adeguatamente articolato.
Ora, a me pare sì giusto non dare indicazioni dettagliate, ma almeno indicazioni generali se ne possono dare, come fa Papa Francesco. Ed è vero che una persona è mossa anzitutto dalla conoscenza preconcettuale, ma anche il concetto vuole la sua parte. Mentre questo tipo di impostazione, come dicevo, ha rischiato di alimentare una sorta di logofobia, una vera e propria patologica diffidenza verso il logos: perché l’importante è l’esperienza, la testimonianza (il preconcettuale). Va bene non forzare nessuno a una posizione culturale dettagliata, e infatti la Chiesa ha sempre ammesso diverse possibili filosofie cristiane (Agostino non è Tommaso, Blondel non è Maritain); ma c'è un argine oltre cui non si può andare, ad esempio in filosofia uno non può essere cristiano e materialista, o cristiano e idealista, o irrazionalista. Va bene non imporre, ma l'idea che è passata è che non è nemmeno utile che i cristiani si confrontino tra di loro e tentino, senza ultimatum e senza intolleranza, di arricchire reciprocamente il loro giudizio sulla realtà anche storica, culturale, e perché no?, politica. Invece è passata l'idea che “ognuno va per i fatti suoi”: è vero che Carrón ha sempre detto che un cristiano deve essere coerente in ambito profano, ma senza dare non solo indicazioni specifiche e dettagliate (il che era giusto), ma senza dare neanche indicazioni generali, aiuti a un giudizio su temi culturali “scottanti”.
In tal modo si è verificato che una parte consistente del Movimento, aiutata in ciò da un settimanale come Tempi, che si è invece fatto prendere la mano dalla paura del nemico ed è tutto impostato sulla lotta al nemico, ha potuto prendere, in politica e a livello culturale, delle sbandate impressionanti. Si è arrivati ad abbracciare posizioni teo-populiste, che vanno in senso diametralmente opposto a quello a cui richiamavano Carrón e Papa Francesco. Ho degli amici che sono convinti estimatori di Carrón e abbracciano poi posizioni politico-culturali diametralmente opposte a quelle (troppo implicitamente) implicate nel suo modo di affrontare le cose. A me pare che ciò configuri ben più di una giusta distanza critica tra fede e giudizi sull'attualità: mi pare si rischi di avere poi situazioni oggettivamente schizofreniche.
Una sottovalutazione del negativo?
(solo fino a un certo punto)
Mi è stato fatto notare che in Carrón i temi del peccato originale, come anche quello del diavolo, sono poco presenti. È molto raro che Carrón ne parli. Io credo che anche qui ci sia il giusto intento di incontrare l'umanità contemporanea, evitando di frapporre concetti che potrebbero ingenerare repulsione. Carrón vuole, giustamente, valorizzare il positivo, piuttosto che esecrare il negativo.
In questo senso in lui la valorizzazione dell'apporto dei non credenti mi sembra sia maggiore che in Giussani: quest'ultimo valorizzava dei non credenti, come Leopardi, o Pascoli, o Pasolini, ma solo come documentazione della domanda, del bisogno umano di salvezza. Mi pare che Carrón si spinga oltre, vedendo positive tracce di Grazia, o meglio di Cristo, tracce di Risposta e non solo di domanda, anche fuori della Chiesa visibile: mi viene in mente la sua valorizzazione di canzoni fatte da cantanti non credenti (o almeno fatte non in quanto credenti). Penso ad esempio alla Illogica allegria: Gaber vi testimonia non solo una domanda umana di significato, ma vi abbozza anche una risposta, possibile a livello non esplicitamente cristiano; la realtà è buona, e che lo sia lo può intravvedere anche chi non muove da presupposti espressamente cristiani. Si tratta di un passo che Giussani non aveva fatto: contrasta questo con la idea giussaniana di decisività e imprescindibilità della soggettività cristiana? Si tratta forse addirittura della riedizione del concetto rahneriano di “cristiani anonimi”? Alla prima domanda risponderei: contrasta sì, ma solo epidermicamente, a livello cioè di stile temperamentale e storico-contingente, ma non a livello profondo. Alla seconda domanda risponderei: no, nella misura in cui quel concetto, come quello, correlato, di “esistenziale soprannaturale” vanificasse l'importanza di una comunità cristiana visibile (una presenza “irriducibile” ama giustamente dire Carrón, e di questo non gli saremo mai abbastanza grati). Sì, invece, nella misura in cui si trattasse di una acquisita coscienza che da un lato appartenere visibilmente alla Chiesa non è garanzia di inerranza, specie sulle questioni politiche (e in parte su quelle culturali) e che d'altro lato non appartenere visibilmente alla Chiesa non implica necessariamente essere incapaci di alcuna verità e di alcun bene.
Eppure, anche qui vi è stata una certa esagerazione, una unilateralità di sottolineatura: in effetti il negativo di cui Carrón esortava a prendere coscienza e a evitare era sempre un negativo che insidia la vita personale, non quella sociale. E qui in effetti esiste una differenza tra lui e papa Francesco, che, pur focalizzandosi maggiormente sul male personale, non manca di dare giudizi anche sul male presente nella società e nelle iniziative collettive del mondo che ci circonda.
Si sarebbe ad esempio potuto prendere di mira quel negativo che lo stesso Papa Francesco prende di mira, ad esempio il populismo. Magari con un articolo su Tracce, che argomentasse perché un cristiano non dovrebbe essere populista. O che argomentasse perché non può essere complottista. Sarebbe insomma probabilmente stato opportuno riprendere i temi che stanno a cuore al Vicario di Cristo, come quello del primato del tempo sullo spazio, e la conseguente indicazione di non mirare a «occupare spazi», ma a «innescare processi»: Carrón queste le cose le ha sempre vissute, e ammirabilmente. Io trovo limitante che non le abbia tematizzate argomentatamente, e/o non le abbia fatte argomentare e dispiegare in tutte le loro implicazioni a qualcun altro, su Tracce.
Non si tratta di una valutazione morale (la coscienza di Carrón, senza dubbio più buono e più bravo e più santo di me), ma della valutazione di un possibile limite di impostazione. Carrón infatti, da un punto di vista personale, è stato fin troppo eroico a sopportare in silenzio le critiche che gli venivano rivolte. Ma quello che è una virtù eroica sul piano personale, potrebbe essere stato un limite a livello di conduzione (pubblica) di un Movimento: non spiegare argomentativamente la propria posizione, potremmo anche dire “non difendersi” tenendo conto degli argomenti portati contro di lui (tenendone conto nel modo più organico possibile, non solo per veloci cenni), a mio sommesso avviso è stato un limite. È vero che Gesù davanti a Pilato «taceva», al punto da stupire non poco l'autorità romana, ma nel corso della Sua vita non aveva certo evitato di dialettizzare.
Inutilità della discussione?
Mi è stato obiettato da un amico che dialettizzando e discutendo non si convince nessuno, quindi Carrón ha fatto bene a non perdere tempo cercando di convincere dialetticamente e a puntare invece tutto sulla testimonianza di una esperienza.
Io direi che il motivo per cui uno deve prendere sul serio anche dal punto di vista razionale le critiche che gli vengono rivolte non è che, rispondendo a tali critiche in modo razionale, argomentato, uno pretenda di convincere l'altro. L'importante è che uno, spiegando le proprie ragioni nel miglior modo possibile, metta l'altro nelle migliori condizioni per poter capire. Poi è chiaro che in ultima analisi l'altro rimane comunque libero. E la libertà, lo sappiamo, davanti non solo alle stesse ragioni, ma addirittura davanti agli stessi fatti, può reagire in modo non solo diverso, ma anche diametralmente opposto: davanti alla risurrezione di Lazzaro alcuni credettero in Cristo, altri decisero, all'opposto, che andava fatto fuori. Perciò: uno ha il dovere di spiegarsi nel miglior modo possibile, attivando tutta la propria umanità, razionalità inclusa; poi se l'altro se ne lasci provocare o meno, a un certo punto è un suo problema.
È vero che in una Tischreden Giussani disse che quando apriva una lettera capiva subito se lo scrivente era sincero (capiva “la sua faccia”), e se non lo era cestinava subito la lettera, senza entrare nel merito di quanto vi era detto. Ma ciò deve essere contestualizzato: si trattava di messaggi privati, inviati a una persona che non aveva molto tempo per rispondere a tutti, dati i ritmi frenetici della sua vita, che non si è mai risparmiata la fatica di annunciare a tutti l'Incontro fatto. Se invece si tratta di critiche pubbliche, che più o meno si assomigliano tra loro, ignorarle sistematicamente, per quanto le si possa ritenere frutto di errata posizione della volontà, è un'altra cosa.
Giocando fuori casa: un motivo soggettivo
Forse, oltre ai motivi che ho già portato per spiegare questa sua impostazione, ci potrebbe essere anche il fatto di “giocare” in un certo senso “fuori casa”, essendo lui spagnolo e avendo incontrato il Movimento e don Giussani un bel po' di tempo dopo molti dei suoi (maggiori) critici. Questo potrebbe aver contribuito ad accentuare qualcosa di comunque già presente nel suo temperamento, schivo, umile e al contempo signorile, rafforzando in lui una certa ritrosia a scontrarsi dialetticamente con altri.
concludendo
Questi limiti, legati del resto credo anche al peso della responsabilità che gli è caduta sulle spalle, di succedere a don Giussani, e che probabilmente lo ha spinto a dire solo ciò di cui era assolutamente certo (echeggiando il paolino «Io non ritenni di sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo»), quindi a focalizzarsi sulla sua personale esperienza, questi limiti non tolgono che Carrón sia stato e sia un uomo di Dio, una grande guida, che ha condotto CL in (sostanziale) stretta fedeltà al carisma di Giussani.
Perciò, in sintesi e come ultima, definitiva e definiente, parola:
grazie, don Julián!
🔗 Pagine correlate
- Si veda anche Carrón dopo Carrón: perché è ingiusto emarginarlo.
- Questa pagina che chiarisce la differenza tra lui e i suoi critici ideologici.
- Il Decreto del Dicastero e i problemi connessi.
- L'incontro con Papa Francesco il 15 ottobre 2022.
- Intervista a Marco Ascione sul libro La profezia di CL
📚 Bibliografia essenziale
Si possono utilmente leggere i libri di don Julián Carrón, come
- La bellezza disarmata, Rizzoli, Milano 2016.
- Dov'è Dio? La fede cristiana al tempo della grande incertezza - intervista con A. Tornielli, Piemme, Milano 2017.
- La voce unica dell'ideale. In dialogo con i giovani, San Paolo - Cinisello Balsamo (Mi) 2018
- Il brillio degli occhi, Nuovo Mondo, Milano 2020.
- Il risveglio dell'umano, Rizzoli, Milano 2020.
- C'è speranza? Il fascino della scoperta, Nuovo Mondo, Milano 2021.
Perciò senza alcuna pretesa di oggettività assolutaPersonalmente io trovo che il vertice del “magistero” di Carrón siano stati gli Esercizi della Fraternità di CL, da lui predicati, del 2016, in occasione dell'Anno Santo della misericordia. Il testo è reperibile sul sito di CL.
🎬 Filmografìa
Anche Carrón, come don Giussani, ha avuto dei films “preferiti”, da lui espressamente indicati come esemplificativi di qualche sua sottolineatura. Tra gli altri si possono ricordare:
- Fanny e Alexander, del grande regista svedese Ingmar Bergman [1982], sulla inadeguatezza di una educazione paga di una misura finita, di una pseudo-tranquillità “borghese”.
- Les Misérables, di Tom Hooper [2012], sul tema della misericordia oltre ogni misura umana.
- Il 5° episodio della terza serie di Black Mirror, Men Against Fire (Gli uomini e il fuoco), di Jakob Verbruggen [2016], sul tema dell'altro, immotivatamente visto come nemico.
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