la Santissima Trinità, icona di Rublev

l'etica cristiana

Vivere secondo la fede.

Se il cristianesimo è l'avvenimento di un incontro con un Altro, l'etica, ossia “ciò che dobbiamo fare” è essenzialmente la nostra risposta a questo avvenimento, la risposta all'Iniziativa dell'Altro che ci si è fatto incontro per liberarci.

In altre parole l'etica non è il nostro sforzo per essere buoni, fedeli ai valori, alla legge morale, ma è adesione all'Iniziativa di un Altro, iniziativa che ci precede e ci sostiene. Insomma è un lasciarsi aiutare, un lasciarsi plasmare dal Mistero.

distorsioni

Per molto tempo nella storia della Chiesa, passata la freschezza delle origini, in cui era chiaro che ci si trovava davanti a un avvenimento imprevedibile, a cui aderire, è prevalso un modo distorto, moralistico e naturalistico, di intendere l'etica.

Lo schema, erroneo, era questo: Dio, di cui sappiamo tutto, ci ha creati per metterci alla prova. Se superiamo la prova, osservando la legge morale, Egli ci darà un premio, la felicità eterna. Se non superiamo la prova, Egli ci castigherà, dandoci un castigo eterno, la pena dell'inferno.

In questo schema, oltre all'errore di pensare che di Dio sappiamo tutto, c'è l'errore di pensare che la legge morale sia estrinseca alla nostra natura, alla nostra realtà, cioè non c'entri niente con quello che io sono. Si tratterebbe di obblighi che Dio ci impone senza che se ne possa capire bene il senso. Quasi si divertisse a imporci degli obblighi, standosene là, beato nella sua olimpica e distaccata lontananza.

Un altro errore è pensare che l'osservanza della legge morale poggi essenzialmente su un nostro sforzo, uno sforzo, un colpo di reni della nostra volontà.

In questo modo è inevitabile che l'uomo senta la legge morale come un peso incomprensibile. E ci si divida tra chi si ribella a un Dio così concepito, come un tiranno arbitrario, e chi crede di sottomettersi a Lui, con due possibili, egualmente negativi, esiti: o ritenersi, superbamente, bravo perché capace di osservare la legge, o disperare di riuscire mai ad osservarla, perché la nostra volontà è fragile. Ribellione, presunzione o disperazione: tali sono le possibili conseguenze di una riduzione moralistica dell'etica.

la prospettiva giusta

Anzitutto occorre ricordare che Dio è Mistero, e che non si è limitato a comandarci dei precetti morali, ma si è coinvolto con noi, incarnandosi, morendo e risorgendo nell'avvenimento imprevedibile di Cristo.

Quindi l'eticità non è la noiosa e prevedibile applicazione di norme universali, che pure ci sono, ma è l'adesione, l'avventura dell'adesione all'imprevedibile novità di un Avvenimento singolare, particolare. Che sempre ci precede e deborda da ogni nostro schema. E che ci stupisce sempre. Non solo all'inizio: si comprehendis non est Deum, ammoniva S.Agostino.

Aderire all'Avvenimento non è poi trascurare o disprezzare la legge morale, ma è collocarla dentro una gratitudine al Mistero che interviene nella carne della nostra vita per salvarci, e capire così che essa non è una somma di precetti estrinseci alla nostra realtà, ma esprime la nostra realtà, ci consente di essere più noi stessi. Chi ci ha creato non ci impone niente che non sia il nostro bene, e il nostro bene è la realizzazione della nostra umanità, la realizzazione vera della nostra autenticità umana. Senza artifici o formalismi.

Certo, aderire all'iniziativa di un Altro nella nostra vita non è senza una fatica da parte nostra. Perché nasciamo col peccato originale e perché siamo continuamente tentati dalla Menzogna, l'angelo delle tenebre, il diavolo. Ma la fatica, e il sacrificio, che ci viene chiesto è dentro un rapporto di amicizia con Lui. Che permette anche le notti della sofferenza sapendone trarre un bene maggiore per noi.

premio e castigo

Non è che non ci siano un premio e un castigo, ma non sono pensabili secondo lo schema moralistico sopra ricordato. Non è pensabile che agire in modo giusto sia solo per avere un premio (impersonale), e men che meno solo o soprattutto per evitare un castigo. Il movente di una corretta etica è la gratitudine, non la paura. E, se un premio ci si aspetta, non è qualcosa di impersonale, ma un Tu. La comunione, l'unità, tra esseri umani come introduzione e partecipazione all'unità trinitaria.

Anche perché il concetto di castigo ha qualcosa di intrinsecamente problematico, in particolare quello della eternità del castigo. La nostra mente infatti può concepire la logica per cui se uno ha distorto la sua azione, nuocendo agli altri, deve lasciarsi “raddrizzare”, come deve fare uno che abbia camminato sempre storto; e questo non può non comportare una sofferenza. È così che si spiega il Purgatorio, che è sofferenza purificatrice. Ma è sofferenza temporanea. L'inferno invece è sofferenza eterna.

La Chiesa ha per lo più insegnato che la pena dell'Inferno è eterna. È davvero così? Von Balthasar, uno dei maggiori teologi del XX secolo, pensava che l'inferno potrebbe essere vuoto, pur restando come possibilità (“potrei essere io il primo ad andarci”). Il problema nasce dal fatto che il Mistero è buono e dunque non vuole la nostra sofferenza, ma la può, al massimo, permettere. In vista di un bene maggiore. Ma quale sarebbe il bene maggiore per uno che soffre eternamente? Inoltre, può una colpa finita, come lo sono le colpe che un essere umano può commettere, meritare un castigo infinito, come lo sarebbe una sofferenza eterna? Sono domande che una intelligenza credente oggi più che mai si pone.

Non sarebbe possibile recuperare il concetto (tipico dei politeismi, greco-romano e nordico, ad esempio) di un destino impersonale (il Fato) a cui gli dei stessi sarebbero sottoposti: Dio infatti è infinito. E perciò niente Gli può essere imposto. Certo, niente di esterno, ma vi è una oggettività a cui Dio stesso, per esprimerci in termini antropomorficamente imperfetti, non può sottrarsi. Ma solo perché essa coincide con la Sua natura, se così possiamo dire. E in questa oggettività c'è il rispetto della libertà creata. Che Egli non può/vuole forzare. E che può chiudersi fino all'ultimo alla Sua iniziativa benefica.

Rimane comunque un mistero. Su cui il Magistero della Chiesa forse tornerà in futuro. Rimane che Dio vuole solo il bene. E che permette il male solo per il rispetto che ha della libertà creata. C'è anche da considerare che la scelta (della libertà umana, pro o contro il Creatore) può essere modificata finché siamo nel tempo, in cui c'è successione di istanti, e un istante dopo si può fare diversamente da un istante prima. Ma una volta che non saremo più nel tempo, si potrà ancora cambiare scelta? Potrà Dio, una volta che i “cattivi” avranno scontato la pena finita delle loro colpe finite, e la loro natura sarà stata purificata e “raddrizzata”, potrà Dio tornare a chiedere: «bene, adesso che cosa volete fare? Vi riconciliate con Me o perseverate per l'eternità nella ribellione?» Uno scenario del genere suona oggettivamente grottesco. Eppure è quanto dovrebbe accadere, perché quello che noi possiamo capire è che Dio non può salvare uno che non voglia essere salvato, non può costringere ad aderire a Lui chi non lo voglia. E i “dannati”, anche per l'insegnamento tradizionale della Chiesa, non sono quelli che hanno commesso 3578 peccati (ossia uno di più dei 3577 peccati “perdonabili”: Giussani diceva che la matematica non c'entra nel rapporto con Dio), ma sono coloro che fino al'ultimo hanno chiuso la loro volontà al Mistero, non Gli hanno chiesto, nemmeno un istante prima di morire, il perdono.

Qui si apre un tema decisivo per l'etica (cristiana): quello della misericordia.

Il “sì di Pietro”

Noi non siamo capaci di essere buoni: la nostra volontà è debole. Sia perché nasciamo col peccato originale, sia perché siamo continuamente tentati dalla Menzogna, il diavolo, sia perché usiamo male della libertà di scelta. Quindi pensare che ci si possa salvare con le proprie forze è sbagliato, è l'eresia pelagiana. Si può fare il bene solo con l'aiuto soprannaturale del Mistero, con la Sua Grazia.

Ma fare il bene è sempre un lasciarsi risollevare dal male che continuamente si fa, perché anche solo il dimenticare il Mistero per un minuto è già un male, è già un tradimento. Vi può essere, da un lato, un modo angoscioso di pensare alla potenza del male in noi, tipico ad esempio di un certo protestantesimo, e questo è sbagliato. Ma non meno sbagliata sarebbe, d'altro lato, una ridanciana superficialità che non si accorga, o meglio finga di non accorgersi, di quanto siamo diversi da come dovremmo, di quanta lontananza c'è dalla nostra verità.

L'unica soluzione al male che c'è in noi è nella potenza rigeneratrice del Mistero, che, in Cristo, non si stanca mai di risollevarci: è quello cioè che don Giussani chiamava il “sì di Pietro”. Cristo risorto non rinfaccia a Pietro di averLo rinnegato, nella notte che precedette la Sua crocifissione, ma gli chiede «mi ami tu?». Pietro non deve rimediare con le sue forze all'errore commesso, non deve applicarsi in un erculeo, titanico sforzo per mettere a posto la sua vita prima di poter tornare all'amicizia col Signore. Basta che gli dica “sì”: «Sì o Signore, tu sai che ti amo». Pur con tutta la mia debolezza e meschinità, pur con tutti i miei errori e il mio male, sei Tu la suprema preferenza della mia vita.

Quello che è stato chiesto a Pietro, è chiesto anche a noi: non di essere bravi, non di non sbagliare mai, ma di dire sì a Lui, attraversando la bruciante vergogna dei nostri continui sbagli. Vergogna che è poi orgoglio. Bisogna tenere lo sguardo su di Lui, che ci ama. E non su noi stessi, inevitabilmente fragili e peccatori.

Questo non significa certo abbandonarsi al male. La gratitudine del perdono che ci viene continuamente dato non può che spingerci a desiderare di essere «perfetti come il Padre che è nei cieli». Ma come risposta grata e commossa alla Sua iniziativa. E non come conquista della nostra bravura.

il fine della vita

Fin qui ho parlato dell'etica come adesione all'Iniziativa di un Altro, che vuole il nostro bene, la realizzazione della nostra umanità. E che non si ferma davanti alla nostra infedeltà. Ma chiediamoci ora: in che cosa consiste, in dettaglio, questa realizzazione? O anche: a quale fine ultimo l'Altro vuole condurci?

La forma paradossale del fine ultimo

È merito di Henri de Lubac aver riscoperto quello che i primi secoli cristiani avevano ben chiaro, ma dal tardo Medioevo in poi si era annebbiato: l'Avvenimento di Cristo e la realizzazione soprannaturale da esso resa possibile, non è qualcosa di estrinseco, di estraneo alla nostra umanità, alla nostra natura umana, ma è l'unica risposta adeguata alla domanda che la nostra umanità è. È l'unico che possa saziare il nostro desiderio di felicità, che è desiderio di felicità infinita. Ossia, in termini tecnici (medioevali) è “desiderio di vedere Dio”. La teologia patristica e medioevale parla infatti di un desiderium naturale videndi Deum, che ci costituisce, che costituisce la radice profonda del desiderio. Senza raggiungere in qualche modo questo “Oggetto” infinito, non potremmo mai essere felici. Resterebbe sempre in noi una insoddisfatta inquietudine.

Questo è un paradosso: infatti l'uomo è l'unico essere nel mondo visibile che abbia un fine ultimo non raggiungibile con le sue forze naturali. La nostra natura cioè ha un fine soprannaturale, Dio nella Sua stessa intima vita; qualcosa che l'uomo non potrebbe raggiungere con le sue forze (naturali, le forze di cui è dotata la sua natura), nemmeno se non ci fosse stato il peccato originale.

Il contenuto del fine ultimo

Ma esattamente che cos'è questo fine soprannaturale?

La concezione prevalente nella teologia occidentale vede la vita eterna come consistente essenzialmente in un atto di conoscenza, la visione “beatifica” di Dio, a cui conseguirà la felicità. Nella teologia orientale invece vi è piuttosto l'immagine del banchetto eterno. Questa seconda immagine mi sembra meno inadeguata.

In effetti, l'idea di visio beatifica, pur senza essere sbagliata, si presta talmente a interpretazioni riduttive che una sua revisione sarebbe sommamente auspicabile. Quali interpretazioni? “Vedere Dio” può facilmente essere inteso come qualcosa che ogni singola persona farà, nella sua cabina, prendendosi il piacere di vedere Dio come un Oggetto, qualcosa di posto davanti ai suoi occhi (corporeo-spirituali). Sarà un po' come per gli spettatori in una sala cinematografica: al Cinema Paradiso vedremo il film “Dio”. Un film che durerà un'eternità. Ognuno seduto al suo posto a guardare. Ognuno vedrà qualcosa che sarà fuori di lui (un Oggetto, ob-iectum, posto davanti, ob) e ne godrà separatamente da tutti gli altri beati. Io però non credo che questa sarebbe un'immagine giusta.

La vita eterna mi pare piuttosto partecipazione alla vita di Dio, e Dio è Santissima Trinità, comunione, unità. Dunque partecipare alla vita del Dio uni-trino significa vivere una comunione, una unità coi Tre e con tutti gli altri beati. Questa unità non sarà qualcosa da contemplare (soltanto), ma da vivere. C'è qualcosa di vero nella tesi di Duns Scoto che la libertà (di scelta) non sarà tolta nell'eternità. Non nel senso che qualche beato a un certo punto potrà cambiare idea e andare col diavolo, ma nel senso che non saremo passivi spettatori di un Oggetto, ma attivi co-protagonisti di una unità, che sarà l'essenziale motivo della nostra beatitudine. Perché parteciperemo alla vita di Dio, e Dio è beato proprio per la perfetta unità che vivono i Tre.

Ho detto che l'immagine del banchetto è meno inadeguata di quella della visione: tuttavia in fondo, se ben intese, le due immagini convergono. Infatti “vedere Dio” coincide col “diventare Dio”, e Dio è comunione, unità perfetta dei Tre. Senza che uno cerchi di prevaricare sugli altri, o di primeggiare pavoneggiandosi vanamente. Unità, come i Tre. Reciproca totale autodonazione che non annulla, ma costruisce ed esalta la personalità dei partecipanti all'unità.

E questo fine ultimo si può cominciare a sperimentare già da questa vita, da subito. Imperfettamente, ma realmente.

📚 Bibliografia essenziale

🎬 Filmografìa