Giussani con Carrón

Carrón - limiti effettivi

«Haec oportebat facere, et illa non omittere» (Mt, 23, 23)

Pur muovendosi in una giusta direzione, Carrón ha esagerato, a mio umile avviso, nel non dare, come ho detto alcun giudizio di fede sull'ambito profano. Perché? Tale limite di aver slegato un po’ troppo fede e ambito profano mi sembra anzitutto legato all'idea di non potersi permettere il lusso di sbagliare, per via della grave responsabilità ricevuta da Giussani. Ma oltre a ciò esisteva probabilmente anche una certa diffidenza verso il concetto, qualcosa che in termini filosofici chiamerei logofobia.

una eccessiva diffidenza verso il concetto

La radice di questa, oltre al già accennato timore di tradire la fiducia riposta in lui da Giussani, mi pare sia stata (almeno) duplice: 1) il tipo di formazione intellettuale di Carrón, biblista, e 2) la reazione a una precedente tendenza teologico-politica un po’ troppo schmittiana.

1) Ricordo che von Balthasar in una intervista lamentava che i teologi biblici sono un po’ troppo diffidenti verso la speculazione razionale, verso il logos. Ne segue una dicotomia tra la teologia biblica e la teologia speculativa. Rifarsi alla Parola di Dio è certo importantissimo, e in generale un cristiano deve anzitutto custodire in atteggiamento di silenzio interiore un dono imprevedibile che gli viene fatto. La passività deve prevalere sulla attività (anche come attività di concettualizzazione). Lo stupore ha un primato sul concetto. Ma primato non è esclusione. Il primato della recettività e dell'esperienza non è alternativo a uno sforzo di comprensione anche razionale, purché fatto all’interno della fede. Seguire viene prima ed è più decisivo del capire, ma non esclude il capire. La Chiesa cattolica ha sempre valorizzato lo sforzo per capire il più possibile e cogliere il più possibile i nessi delle verità di fede tra loro e con l’insieme dello scibile umano. San Paolo stesso ce ne dà una prova negli inni cristologici delle lettere ai Colossesi e agli Efesini, ma un po’ anche altrove, dove non si limita ad annunciare un fatto o dei fatti, ma cerca, per quanto balbettando, di coglierne, con grato stupore, la logica.

Se capire (e quindi argomentare, anche dialettizzando) fosse alternativo a seguire i cristiani non dovrebbero coltivare la filosofia. Ma la Chiesa ha fatto santi dei filosofi, come S.Agostino e S.Tommaso d'Aquino, e fa studiare filosofia nei seminari, e valorizza lo sforzo per le prove razionali dell'esistenza di Dio, tanto che il Concilio Ecumenico Vaticano I ha previsto la scomunica per un cristiano che neghi la possibilità per la ragione di argomentare razionalmente l'esistenza di Dio.

Del resto don Giussani quando insegnava al Berchet dialettizzava con i suoi studenti (ne parla a volte come di «alterchi»); non si limitava a dire «fate esperienza», «capirete solo facendo esperienza»: proponeva l'esperienza e forniva delle ragioni che tenevano conto delle obiezioni che gli venivano fatte, nel modo argomentativamente più completo. E infatti il suo testo Il Senso religioso è tutto intessuto di argomentazioni razionali, non si limitava a invitare a una esperienza, pur essendo questa decisiva. Decisiva, ma non esclusiva.

Ora, Carrón è, come studioso, un biblista, e in quanto tale corre il rischio di tutti i biblisti: quello di “diffidare” un po’ troppo della capacità della ragione di capire e di connettere. Di dispiegare fino in fondo l’arco delle proprie capacità. Probabilmente per l'inconscio pensiero che ciò sarebbe un prometeico tentare di impossessarsi di qualcosa che deve restare totalmente ineffabile.


2) Ma in secondo luogo una maggior distanza critica tra fede e cultura può essere letta come reazione a un eccesso di segno opposto, soprattutto in ambito politico, l’eccesso di pretendere di ricavare dalla fede dettagliate indicazioni operative, specie politiche. Giussani stesso non era esente da questo rischio (opposto), vuoi per il suo temperamento impetuoso, che lo portava a desiderare risposte precise e decise, vuoi per il contesto storico della sua formazione, soprattutto il secondo dopoguerra e poi la progressiva erosione della incidenza cristiana sulla società, un contesto in cui la fede veniva vivacemente contestata (e in alcuni Paesi violentemente perseguitata): e Giussani sbottava, si vedano i diversi episodi da lui stesso riferiti, di lui che, apostrofato da comunisti e anticlericali ora su un tram, ora su un treno, ora su un lungomare, reagisce rendendo pan per focaccia, in modo decisamente battagliero. In questo senso anche Borghesi nota come vi fossero in Giussani dei residui di “teologia politica”: l’idea che la comunità cristiana sia sotto attacco da parte di un “mondo” ostile e che essa debba perciò reagire compattamente e con una giusta dose di aggressività. Del resto, ripeto, il contesto di allora giustificava (almeno in gran parte) questo piglio più battagliero dato che nei paesi comunisti la Chiesa era effettivamente perseguitata e in Italia il PCI, legato a tali paesi, era minacciosamente forte.

Di residui marginali comunque si trattava, in Giussani, perché questa componente era bilanciata in lui da una controspinta tutt’altro che esile verso l’apertura all’alterità: si pensi alla sua valorizzazione di pensatori non cristiani come Leopardi, Pascoli, Pasolini, lo stesso Nietzsche; si pensi al suo grandissimo rispetto per chi non era credente e alla sua volontà di non forzare nessuno alla conversione alla fede cattolica (ognuno deve andare a fondo della tradizione in cui Dio l’ha fatto nascere); si pensi al fatto che solo obtorto collo Giussani chiese al movimento di partecipare alle campagne referendarie contro divorzio e aborto, giudicando un errore, sia pure più tattico che strategico, una guerra del genere.

È comunque un fatto che i ciellini, vivente don Giussani, erano abituati a votare compattamente per la stessa forza politica (tipicamente, in pratica, la DC) e il più possibile per gli stessi candidati (aiutati in ciò dalla presenza nell’agone politico di persone del Movimento, come Formigoni). Questo legame molto stretto tra fede e politica poteva però comportare conseguenze negative, di cui si è preso sempre più coscienza, dato che in tal modo si rischiava di tagliar fuori dalla possibilità di recepire l’annuncio della fede le moltissime persone che non si riconoscevano nelle scelte politiche fatte “dal Movimento” in quanto tale. Insomma politicizzare la fede ostacolava la missione.

Carrón ha reagito a tale eccesso “teologico-politico”, credo soprattutto per il fatto di trovarlo di ostacolo alla missione, in un mondo in cui le ideologie erano crollate e non esistono più, almeno in Europa, pericoli di persecuzione esplicita e violenta contro la fede, ma al contrario si è creato un clima in cui molti non credenti cercano sinceramente il senso della vita e sarebbero allontanati dall'accostarsi alla comunità cristiana se questa sostenesse, in quanto tale, tesi (politiche dettagliate) che confliggono troppo duramente con quanto hanno sempre pensato e per cui hanno lottato. Insomma dettagliare una linea politica articolata può costituire un muro verso persone, nostri fratelli, verso cui il nostro compito precipuo è annunciare Cristo, piuttosto che raddrizzare loro le idee (politiche).

Carrón ha però forse rischiato l’eccesso opposto a quello della teologia politica, nel pur lodevole intento di non porre ostacoli alla missione. Non solo infatti non venivano da lui date indicazioni dettagliate, specifiche, su questioni “profane” (culturali e politiche), ma non veniva data praticamente nessuna indicazione, se non timidissimi cenni, allusioni velate. Senza dispiegare argomenti in modo adeguatamente articolato.

Ora, a me pare sì giusto non dare indicazioni dettagliate, ma almeno indicazioni generali se ne possono dare, come fa Papa Francesco. Ed è vero che una persona è mossa anzitutto dalla conoscenza preconcettuale, ma anche il concetto vuole la sua parte. Mentre questo tipo di impostazione, come dicevo, ha rischiato di alimentare una sorta di logofobia, una vera e propria patologica diffidenza verso il logos: perché l’importante è l’esperienza, la testimonianza (il preconcettuale). Va bene non forzare nessuno a una posizione culturale dettagliata, e infatti la Chiesa ha sempre ammesso diverse possibili filosofie cristiane (Agostino non è Tommaso, Blondel non è Maritain); ma c'è un argine oltre cui non si può andare, ad esempio in filosofia uno non può essere cristiano e materialista, o cristiano e idealista, o irrazionalista. Va bene non imporre, ma l'idea che è passata è che non è nemmeno utile che i cristiani si confrontino tra di loro e tentino, senza ultimatum e senza intolleranza, di arricchire reciprocamente il loro giudizio sulla realtà anche storica, culturale, e perché no?, politica. Invece è passata l'idea che “ognuno va per i fatti suoi”: è vero che Carrón ha sempre detto che un cristiano deve essere coerente in ambito profano, ma senza dare non solo indicazioni specifiche e dettagliate (il che era giusto), ma senza dare neanche indicazioni generali, aiuti a un giudizio su temi culturali “scottanti”.

In tal modo si è verificato che una parte consistente del Movimento, aiutata in ciò da un settimanale come Tempi, che si è invece fatto prendere la mano dalla paura del nemico ed è tutto impostato sulla lotta al nemico, ha potuto prendere, in politica e a livello culturale, delle sbandate impressionanti. Si è arrivati ad abbracciare posizioni teo-populiste, che vanno in senso diametralmente opposto a quello a cui richiamavano Carrón e Papa Francesco. Ho degli amici che sono convinti estimatori di Carrón e abbracciano poi posizioni politico-culturali diametralmente opposte a quelle (troppo implicitamente) implicate nel suo modo di affrontare le cose. A me pare che ciò configuri ben più di una giusta distanza critica tra fede e giudizi sull'attualità: mi pare si rischi di avere poi situazioni oggettivamente schizofreniche.

Inutilità della discussione?

Mi è stato obiettato da un amico che dialettizzando e discutendo non si convince nessuno, quindi Carrón ha fatto bene a non perdere tempo cercando di convincere dialetticamente e a puntare invece tutto sulla testimonianza di una esperienza.

Io direi che il motivo per cui uno deve prendere sul serio anche dal punto di vista razionale le critiche che gli vengono rivolte non è che, rispondendo a tali critiche in modo razionale, argomentato, uno pretenda di convincere l'altro. L'importante è che uno, spiegando le proprie ragioni nel miglior modo possibile, metta l'altro nelle migliori condizioni per poter capire. Poi è chiaro che in ultima analisi l'altro rimane comunque libero. E la libertà, lo sappiamo, davanti non solo alle stesse ragioni, ma addirittura davanti agli stessi fatti, può reagire in modo non solo diverso, ma anche diametralmente opposto: davanti alla risurrezione di Lazzaro alcuni credettero in Cristo, altri decisero, all'opposto, che andava fatto fuori. Perciò: uno ha il dovere di spiegarsi nel miglior modo possibile, attivando tutta la propria umanità, razionalità inclusa; poi se l'altro se ne lasci provocare o meno, a un certo punto è un suo problema.

È vero che in una Tischreden Giussani disse che quando apriva una lettera capiva subito se lo scrivente era sincero (capiva “la sua faccia”), e se non lo era cestinava subito la lettera, senza entrare nel merito di quanto vi era detto. Ma ciò deve essere contestualizzato: si trattava di messaggi privati, inviati a una persona che non aveva molto tempo per rispondere a tutti, dati i ritmi frenetici della sua vita, che non si è mai risparmiata la fatica di annunciare a tutti l'Incontro fatto. Se invece si tratta di critiche pubbliche, che più o meno si assomigliano tra loro, ignorarle sistematicamente, per quanto le si possa ritenere frutto di errata posizione della volontà, è un'altra cosa.

Una sottovalutazione del negativo?

(solo fino a un certo punto)

Mi è stato fatto notare che in Carrón i temi del peccato originale, come anche quello del diavolo, sono poco presenti. È molto raro che Carrón ne parli. Io credo che anche qui ci sia il giusto intento di incontrare l'umanità contemporanea, evitando di frapporre concetti che potrebbero ingenerare repulsione. Carrón vuole, giustamente, valorizzare il positivo, piuttosto che esecrare il negativo.

In questo senso in lui la valorizzazione dell'apporto dei non credenti mi sembra sia maggiore che in Giussani: quest'ultimo valorizzava dei non credenti, come Leopardi, o Pascoli, o Pasolini, ma solo come documentazione della domanda, del bisogno umano di salvezza. Mi pare che Carrón si spinga oltre, vedendo positive tracce di Grazia, o meglio di Cristo, tracce di Risposta e non solo di domanda, anche fuori della Chiesa visibile: mi viene in mente la sua valorizzazione di canzoni fatte da cantanti non credenti (o almeno fatte non in quanto credenti). Penso ad esempio alla Illogica allegria: Gaber vi testimonia non solo una domanda umana di significato, ma vi abbozza anche una risposta, possibile a livello non esplicitamente cristiano; la realtà è buona, e che lo sia lo può intravvedere anche chi non muove da presupposti espressamente cristiani. Si tratta di un passo che Giussani non aveva fatto: contrasta questo con la idea giussaniana di decisività e imprescindibilità della soggettività cristiana? Si tratta forse addirittura della riedizione del concetto rahneriano di “cristiani anonimi”? Alla prima domanda risponderei: contrasta sì, ma solo epidermicamente, a livello cioè di stile temperamentale e storico-contingente, ma non a livello profondo. Alla seconda domanda risponderei: no, nella misura in cui quel concetto, come quello, correlato, di “esistenziale soprannaturale” vanificasse l'importanza di una comunità cristiana visibile (una presenza “irriducibile” ama giustamente dire Carrón, e di questo non gli saremo mai abbastanza grati). Sì, invece, nella misura in cui si trattasse di una acquisita coscienza che da un lato appartenere visibilmente alla Chiesa non è garanzia di inerranza, specie sulle questioni politiche (e in parte su quelle culturali) e che d'altro lato non appartenere visibilmente alla Chiesa non implica necessariamente essere incapaci di alcuna verità e di alcun bene.

Eppure, anche qui vi è stata una certa esagerazione, una unilateralità di sottolineatura: in effetti il negativo di cui Carrón esortava a prendere coscienza e a evitare era sempre un negativo che insidia la vita personale, non quella sociale. E qui in effetti esiste una differenza tra lui e papa Francesco, che, pur focalizzandosi maggiormente sul male personale, non manca di dare giudizi anche sul male presente nella società e nelle iniziative collettive del mondo che ci circonda.

Si sarebbe ad esempio potuto prendere di mira quel negativo che lo stesso Papa Francesco prende di mira, ad esempio il populismo. Magari con un articolo su Tracce, che argomentasse perché un cristiano non dovrebbe essere populista. O che argomentasse perché non può essere complottista. Sarebbe insomma probabilmente stato opportuno riprendere i temi che stanno a cuore al Vicario di Cristo, come quello del primato del tempo sullo spazio, e la conseguente indicazione di non mirare a «occupare spazi», ma a «innescare processi»: Carrón queste le cose le ha sempre vissute, e ammirabilmente. Io trovo limitante che non le abbia tematizzate argomentatamente, e/o non le abbia fatte argomentare e dispiegare in tutte le loro implicazioni a qualcun altro, su Tracce.

Non si tratta di una valutazione morale (la coscienza di Carrón, senza dubbio più buono e più bravo e più santo di me), ma della valutazione di un possibile limite di impostazione. Carrón infatti, da un punto di vista personale, è stato fin troppo eroico a sopportare in silenzio le critiche che gli venivano rivolte. Ma quello che è una virtù eroica sul piano personale, potrebbe essere stato un limite a livello di conduzione (pubblica) di un Movimento: non spiegare argomentativamente la propria posizione, potremmo anche dire “non difendersi” tenendo conto degli argomenti portati contro di lui (tenendone conto nel modo più organico possibile, non solo per veloci cenni), a mio sommesso avviso è stato un limite. È vero che Gesù davanti a Pilato «taceva», al punto da stupire non poco l'autorità romana, ma nel corso della Sua vita non aveva certo evitato di dialettizzare.

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