Riduzioni del Cristianesimo

La chiesa dispone della gioia
di tutta la parte di gioia
riservata a questo triste mondo.
(G. Bernanos, Diario di un curato di campagna)

In sintesi

Come ho già accennato, ci sono stati nella storia e continuano a poterci essere dei modi riduttivi di presentare il cristianesimo, che contribuiscono a tenerne lontano chi potrebbe accostarvisi, o a impattare negativamente sulla possibilità di gustarne la potenza liberante.

Queste riduzioni peraltro non sono eresie vere e proprie, perché chi le coltiva può benissimo non esserne consapevole, tant'è che quasi sempre queste riduzioni non segnano una ribellione al Magistero della Chiesa, che della vera fede è garante.

In sintesi il cristianesimo è un dono, fatto da un Altro, che è Mistero. Aderire a questo dono implica fidarsi della misura di un Altro, le cui «vie non sono le nostre vie», e questo significa accettare il sacrificio della nostra misura. Il che ci trova, per il peccato originale, potenzialmente riottosi: preferiamo impossessarci del mistero, e non rimanere nella posizione, vertiginosa, di dipendere dall'Iniziativa di un Altro, che è Mistero.

Preferiamo le nostre misure, e quindi i nostri schemi e i nostri progetti, pensando di trovare in essi una sicurezza che la dipendenza dall'Altro sembra non garantire.

Ecco, le riduzioni hanno tutte questa radice: ridurre alla nostra misura Ciò che eccede la nostra misura. E questo, come dice papa Francesco, ha due risvolti:

Con il primo atteggiamento, gnostico, pretendiamo di aver capito il cristianesimo e abbandoniamo come infantile, come una fase da superare, l'atteggiamento di stupore davanti a una Iniziativa imprevedibile e irriducibile.

Con secondo atteggiamento, che consegue il primo, pensiamo che il problema sia applicare quello che abbiamo capito. Con le nostre forze: ecco il pelagianesimo, e il relativo moralismo. La vita non è l'avventura di aderire all'Iniziativa sempre nuova e imprevedibile di un Altro, ma è applicare, con le mie forze, delle leggi, che io capisco perfettamente.

Senza pretesa di completezza tratteggiamo alcune delle più importanti riduzioni e delle loro dinamiche.

casi particolari

Da notare che ognuna delle riduzioni che segnaliamo di seguito può benissimo intrecciarsi con altre.

riduzioni gnostiche

il riduzionismo biblicista

Si sente non di rado dire della importanza della Parola. Addirittura ho sentito un sacerdote (non un pastore protestante) dire in una omelia che un cristiano potrebbe benissimo fare a meno dei sacramenti, ma non della Parola (cioè della Bibbia). Ora, senza un Fatto, senza l'Avvenimento di un Incontro, la Bibbia resterebbe un bel libro, belle parole, nobili, che danno da pensare. Nella migliore delle ipotesi: perché alla Bibbia hanno attinto, sradicandola dal suo contesto, tutti gli cioè gli iniziatori di eresieeresiarchi.

La Bibbia infatti non è, come il Corano, un Testo calato dall'alto: è la testimonianza di un Fatto. Ed è solo dentro un Fatto che viene capita. Solo dentro il medesimo Contesto che l'ha generata.

Non si crede perché si legge un libro, sia pure il Libro: si crede perché si sono visti dei volti, perché si è incontrato una Umanità che ci ha testimoniato quella stessa Realtà di cui quel Libro parla, anzi che in esso parla. La Parola, il Verbo non si è fatto carta: si è fatto carne.

Così come gli Apostoli, sulla cui testimonianza, trasmessa ininterrottamente di generazione in generazione, si fonda la nostra fede non hanno letto di Gesù: lo hanno visto; Gesù non ha detto ad Andrea e Giovanni, e agli altri discepoli: “andate e leggete la Bibbia”, ma “venite, seguitemi”. Seguite Me, Uomo in carne e ossa: Gesù non era un Libro, ma un Uomo in carne e ossa, e stando con Lui gli Apostoli avrebbero capito che quell'Uomo era Dio.

il riduzionismo miracolistico

È vero non si può credere senza miracoli. Credere è un miracolo: cioè è qualcosa che eccede la ragione, ed è perciò reso possibile da un fattore che eccede la ragione e la natura; il che equivale a dire che la fede è una grazia, che essa è resa possibile da una energia soprannaturale.

Tuttavia ci sono diversi modi di intendere quale sia il miracolo su cui poggia fondamentalmente la fede (e la vita cristiana): per gli Apostoli erano sì importanti i miracoli (le guarigioni e gli altri eventi soprannaturali che Gesù operava), ma più decisivo e fondamentale era il Miracolo, che era la stessa persona di Gesù Cristo, nella sua umanità carica di fascino e di attrattiva, e capace di trasmettersi in qualche modo, come per lenta ma efficace osmosi, in coloro che Lo seguivano con cuore sincero.

Tanto è vero che chi lo vedeva occasionalmente, e vedeva dei miracoli, non sempre si sentiva vincolato a crederGli e a seguirLo: capitava per molti, sia pure spettatori di miracoli, che tutto finisse lì. Non fissavano infatti la loro attenzione sul Miracolo, che era la stessa persona di Cristo e la Sua capacità di rendere più umana (più vera, più pacificata) l'umanità di chi lo seguiva.

Così per noi: c'è un miracolo decisivo, che è il cambiamento (donato) della mia umanità, il mio cambiamento, il mio essere più vero, più capace di perdono e di gratuità, più in pace, più facilmente lieto; ci possono poi anche essere dei miracoli esterni a me, alla mia libertà, dei miracoli cioè di tipo fisico: la guarigione da una malattia incurabile, le lacrime di un dipinto sacro (come capitò a fine '700 nello stato pontificio invaso da Napoleone), l'acqua che sgorga a Lourdes, il sole che rotea a Fatima nel 1917, le bilocazioni padre Pio, e così via.

Da un lato non sarebbe credente chi escludesse la possibilità di miracoli di questo tipo: si può solo, a ragion veduta, cioè a-posteriori, ritenersi non convinti della veridicità di questo o quel presunto miracolo. Dio infatti può fare i miracoli: Gesù ne ha fatti, nel Suo nome tutti santi ne hanno fatti.

Ma, d'altro lato, senza il miracolo fondamentale, il cambiamento della propria umanità, i miracoli fisici non convincerebbero stabilmente e fino in fondo; viceversa se c'è il miracolo fondamentale, non c'è bisogno che ci siano gli altri. Attenzione: non c'è bisogno, non nel senso di un disprezzo o di un rifiuto; nel senso di una non-pretesa. Chinandosi con venerazione umile e grata laddove, per pura bontà di Dio, si verifichino anche quelli.

Il primato del miracolo sui miracoli esprime tra l'altro la profonda ragionevolezza della fede: il cambiamento di me infatti non consiste nella comparsa di una straordinarietà di facoltà strane o paranormali, ma nella attuazione piena della mia stessa natura, della mia umanità; consiste nel fatto che mi è reso possibile essere più me stesso; per esempio capace di piangere e di ridere, di giudicare con equità, di parlare senza offendere. Il miracolo è anzitutto, meglio implica anzitutto la pienezza della mia umanità, la grazia implica la piena realizzazione della natura: dunque la grazia, la fede è il compimento della natura, della ragionevolezza. C'è una continuità tra natura e grazia, c'è un fiorire della natura nella grazia, che la sola natura non saprebbe darsi.

C'è invece nella Chiesa chi fa poggiare la sua fede su una devozione che invece di cercare anzitutto il proprio cambiamento, cerca dei miracoli esteriori, dei fatti sensazionali. I quali, se non si collocano all'interno di un cammino integrale di conversione, hanno il potere di commuovere il sentimento, ma non cambiano la persona. Producono momenti di intensa emozione, che lasciano la vita come prima.

Il riduzionismo ideologizzante

Chiamiamo così chi riduce (di fatto) il Cristianesimo a ideologia, a insieme di idee e di valori da far trionfare nella società senza passare attraverso il cambiamento, libero, delle persone. In questo modo si coltivano dei “progetti” volti a egemonizzare la società e lo stato, quasi irradiando i valori cristiani.

Spesso questo riduzionismo tende a dare una visione unilateralmente negativa della modernità, tranciando giudizi di totale condanna, e coltivando impossibili nostalgie per forme ormai passate.

Non è sbagliato, in realtà, desiderare che la società si cristianizzi: nelle Lettere di S.Paolo si dice che Cristo è «tutto in tutti» e ciò è bene per l'uomo che si manifesti.

Il punto allora qual è? Che non si tratta dell'esito di un progetto, il cui perno oltretutto sia in ambito politico (o culturale). Il Cristianesimo non consiste in valori che si “irradiano” in modo impersonale, ma è un Fatto che si testimonia da persona a persona. Ad esso ci si può convertire, con un atto assolutamente libero della propria persona, mosso dalla testimonianza di altre persone, che rischiano di manifestare il cambiamento che in loro è avvenuto e avviene grazie a Cristo; non sarebbe conversione un "subire i valori cristiani", assorbendoli per osmosi dall'ambiente inteso come un che di impersonale e di non-libero. Il Cristianesimo non è una situazione, è un avvenimento.

La cristianizzazione della società perciò non è la condizione, ma l'esito, il possibile esito, dell'avvenimento della imprevedibile e libera conversione di persone a una Presenza, a un Tu, che non obbedisce a strategie, neanche "buone".

riduzioni pelagiane

il riduzionismo doverista

Significa la fede ridotta a dovere. Come già abbiamo detto, ne viene fuori il tipico cristiano come "brava persona", soddisfatta di sé, ineccepibilmente regolare. Peccato solo che non rimandi oltre sé: vedendolo non viene da pensare "com'è grande Dio", ma "com'è (noiosamente) regolare quel tale", "che bravo", "che forza di volontà"; ma a me che cosa dice? Che speranza mi da? Non mi sollecita a cambiare, non dandomi testimonianza della forza della Grazia, ma al limite della forza della sua bravura.

C'è una variante apparentemente più pensosa del tipo umano di cristiano doveristico: è chi, pur rigorosissimo con sé stesso (o almeno amando apparire tale) ama atteggiarsi come tormentato da dubbi e da inquietudini "metafisiche", circa il livello di moralità propria e del mondo. E' il doverista perennemente insoddisfatto, inquieto, alla perpetua ricerca di ciò che non va, come avendo il peso del mondo sulle sue spalle, invariabilmente aggrottato e accigliato. Non di rado si unisce a Robespierre laici, e magari atei, di turno, nel testardo disegno di estirpare la zizzania anche a costo di strappare un bel po' di buon grano. Mai si concede di poter essere lieto, considerando la gioia come una colpa, un cedimento alla corruzione morale, se prima non si è messo a posto il mondo. E' triste quando gli viene da essere contento, è contento quando indignazione e preoccupazione gli riempiono l'animo.

Una volta il doverismo era soprattutto volto alla moralizzazione dell'individuo singolo, con una sottolineatura piuttosto ossessiva dei peccati legati al sesso. Oggi su quei temi c'è una gran confusione, che ha creato un lassismo programmatico, e si punta piuttosto il dito con indignazione contro i peccati “sociali”. Così il doverismo, specie nella sua variante "tormentata" si risolve nel riduzionismo sociologistico-collettivistico-utopistico.

il riduzionismo social-utopistico

E' l'estrema degenerazione del doverismo, del Cristianesimo ridotto a dovere, dimenticando il suo essere un Fatto, un Avvenimento. Esso nasce dalla constatazione che la moralità individuale non è comunque un obiettivo perseguibile: dunque perché avvitarsi su sé stessi? Molto meglio tormentarsi per qualcosa di meno autocolpevolizzante.

Così, se l'uomo non riesce a essere umano, invece di rivolgersi a Cristo per poterlo essere, ci si affida alle forze umane, in fondo ai nostri sogni. E invece di accusare sé stessi, si accusano gli altri, la società, i potenti della terra, le multinazionali. Si ignora così che la moralizzazione della società, basata sulle forze dell'uomo, non è meno irrealizzabile della moralizzazione del singolo individuo.

La verità è che senza la grazia l'uomo non è capace di bene: sine Tuo numine nihil est in homine.